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Hamas

Perché sarà difficile distruggere Hamas. Parla Vidino (George Washington University)

La guerra di Israele nella Striscia di Gaza ha l'obiettivo quello di sradicare il gruppo terroristico Hamas: ma è davvero possibile? L'intervista di Affarinternazionali a Lorenzo Vidino, direttore del Programma sull’estremismo della George Washington University.

Nelle sue ricerche si è occupato in più occasioni del movimento terroristico Hamas, autore del barbaro pogrom di ebrei in Israele il 7 ottobre dello scorso anno. Riesce a farci comprendere struttura, organizzazione, obiettivi, punti di forza e debolezza del Movimento Islamico di Resistenza?

Hamas, come lo statuto dell’organizzazione dice chiaramente, è il ramo palestinese dei Fratelli Musulmani, il più grande movimento globale islamista, che ha come obiettivo quello dell’islamizzazione della società e la creazione di regimi governati dalla Sharia, la legge islamica. I Fratelli Musulmani utilizzano, al contrario di gruppi che definirei jihadisti, come Al Qaeda o lo Stato Islamico, un mix di attivismo a livello sociale, politica e violenza. Al contrario quindi di gruppi che utilizzano praticamente solo la violenza, hanno un approccio di più lungo termine per l’islamizzazione della società, fornendo servizi sociali alla popolazione. Questa lunga opera di ingegneria sociale, volta appunto a islamizzare la società, a portare la società a vivere l’Islam come il gruppo ritiene corretto, ha un obiettivo politico: quello della creazione di uno stato islamico. A seconda delle circostanze, i Fratelli optano per soluzioni di attivismo sociale, politico o attività militari, quindi in sostanza scelgono le tattiche a seconda del contesto.

Hamas, come ogni branchia dei Fratelli Musulmani, agisce su questi tre campi, quello sociale, quello politico e quello militare. Opera all’interno della comunità palestinese, ha partecipato alle elezioni politiche, offre servizi sociali alla popolazione, ma utilizza per ottenere i propri risultati anche la violenza, in maniera anche brutale come abbiamo visto il 7 ottobre, in un certo senso non dissimile da Stato Islamico e Al Qaeda. Diciamo che Hamas ha avuto la capacità, negli ultimi anni, di creare un sistema e di inserirsi in un sistema internazionale ancora più grande di alleanze che, se da una parte lo ha isolato politicamente, gli ha però permesso di ottenere fondi e supporto militare, inserendosi in quello che è il cosiddetto asse della resistenza a direzione iraniana. Hamas è parte della costellazione di vari gruppi sciiti, pur essendo sunnita, legati a stretto filo all’Iran, di cui fanno parte Hezbollah, gli Houthi dello Yemen, le varie milizie sciite in Siria e Iraq. Grazie a questa sponsorship iraniana, il movimento ha potuto contare e soprattutto svilupparsi militarmente. Dal punto di vista finanziario ha invece potuto contare sul supporto del Qatar. Questo sistema di alleanze a livello internazionale, ha consentito all’organizzazione di sopravvivere e rinforzare la propria posizione.

La guerra scatenata da Israele contro la Striscia di Gaza ha come obiettivo quello di sradicare il gruppo terroristico dall’area. Crede sia un’operazione realizzabile? John Kirby, coordinatore del Consiglio di Sicurezza Nazionale USA, ha affermato – durante una recente conferenza stampa – che Israele può indebolire Hamas, ma che “probabilmente” il gruppo non verrà annientato. Qual è la sua opinione e che idea si è fatto della strategia militare israeliana?

È chiaramente molto in fieri e tutto in progress, quindi è difficile risponderle. Ritengo però che Kirby possa probabilmente avere ragione. Come più di 20 anni fa, quando Bush sulle macerie delle Torri Gemelle parlava di porre fine al terrorismo, obiettivo poco realizzabile, ma che suonava bene, anche in questo caso, sebbene si tratti di un obiettivo più limitato, distruggere Hamas risulta comunque difficile per vari motivi. Prima di tutto perché Hamas ha una forte presenza di leadership, alta e di medio livello, in una serie di altri paesi. E se in alcuni di questi i leader possono essere colpiti dagli israeliani, come abbiamo visto in Libano qualche giorno fa, in altri paesi, come Turchia o Qatar, risulta molto più difficile. Ricordiamoci che quando il nemico numero uno di Israele era l’OLP, l’organizzazione palestinese pur vedendo i suoi leader cacciati dal territorio palestinese, riuscì a ricostituire una leadership a Tunisi, in Giordania, in Siria, in Libano. Il gruppo rimase in piedi.

Inoltre siamo in presenza di un movimento che ha forti radici nella società palestinese, soprattutto a Gaza, ma non solo, anche nella Cisgiordania. Non stiamo parlando di gruppi come Al Qaeda o ISIS – che comunque gli americani in più di venti anni non sono riusciti a spazzare via – ma di un gruppo che per questa vocazione sociale di cui parlavo prima è molto legato alla società palestinese. Questo non vuol dire che tutti i palestinesi siano membri di Hamas, o supporter di Hamas, ma che comunque Hamas abbia dei legami forti nella società è evidente.

Visto dunque che l’evoluzione del conflitto pare stia andando in direzione di una certa de-escalation israeliana, cioè la riduzione di operazioni militari – soprattutto in virtù delle pressioni americane e internazionali – è chiaro come risulti molto difficile pensare che si possa riuscire ad annientare, far sparire o fare evaporare il movimento. Si entrerà probabilmente in una fase nuova in cui Hamas avrà di sicuro una presenza più debole nella Striscia di Gaza. La grande incognita è quanto rimarrà a Gaza dell’organizzazione.

Anche negli Stati Uniti d’America, come si evince dal suo paper “The Hamas Network in America: A Short History” – pubblicato per il Programma sull’Estremismo della George Washington University – individui e reti che forniscono varie forme di sostegno ad Hamas sono attivi in America da decenni. Di che fenomeno si tratta?

Il discorso fatto in quel paper per quanto riguarda gli Stati Uniti, è più o meno identico a quello di tutti i Paesi europei, chi più chi meno, Italia inclusa. Ossia, esiste una diaspora palestinese, una parte composta da soggetti legati ad Hamas, che svolgono una serie di attività sociali, politiche e di supporto finanziario a favore dell’organizzazione. Sono comunità che esistono da 30/40 anni, con numeri relativamente ridotti, però ben insediate nei vari Paesi occidentali in cui operano, legate alla più grande famiglia dei Fratelli Musulmani, supportate dai Fratelli egiziani, siriani, algerini, giordani e via dicendo.

Nel tempo questi piccoli network hanno saputo creare una serie di strutture, formali e informali, che svolgono una serie di attività a supporto di Hamas. Sono attività di mobilitazione delle comunità, come le manifestazioni di piazza a cui assistiamo da anni e che abbiamo visto in modo particolare dopo il 7 ottobre. Sono molto bravi nello svolgere questa attività anche perché, oltre a nuotare nella galassia islamista, hanno creato tutta una serie di legami con mondi diversi, per esempio con la sinistra, anche quella non estrema. Riescono a creare legami con soggetti che, pensando semplicemente di aiutare la causa palestinese, non sono magari neanche consci del fatto che si tratti di network legati a Hamas. Sono cellule che operano con un piede nella legalità e un piede nell’illegalità, raccogliendo fondi che poi dirigono a Hamas, ma che le autorità occidentali – se si esclude quanto avvenuto negli Stati Uniti – hanno avuto difficoltà a dimostrare con delle prove nei tribunali”.

C’è un Paese, il Qatar, che ha assunto una notevole rilevanza nella diplomazia internazionale. È uno stato ricco di contraddizioni, finanzia Hamas e ospita un’importante base degli Stati Uniti d’America. Che idea si è fatto sulla politica dell’Emirato?

Il Qatar è un Paese che da anni svolge una politica molto interessante, molto aggressiva, mirata a ritagliarsi un ruolo indipendente, rispetto ai suoi due cugini più grandi, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, con cui storicamente non va d’accordo. L’emirato lo fa attraverso una politica particolare, all’apparenza piena di contraddizioni. Cerca di ‘comprare’ – e non uso la parola a caso perché ha molto a che fare con il suo enorme potere economico – amici in mondi molto diversi.

Il Qatar è un amico apparente dell’Occidente, perché svolge una serie di attività che piacciono all’Occidente. Ospita la più grande base americana in Medioriente, fa investimenti molto mirati e strategici in quasi tutti i paesi occidentali, Italia inclusa, investe in attività che non solo sono fruttifere, ma che portano il Qatar a presentarsi come partner importante alle élite dominanti dei vari paesi occidentali. Pensiamo all’organizzazione dei mondiali di calcio o alla proprietà di grandi club calcistici. Nello stesso tempo, il piccolo emirato supporta, sponsorizza, finanzia una serie di attori islamisti che vanno dai talebani, a Hamas, a una serie di altre milizie islamiste, se non jihadiste, in Siria e in altri paesi. Il Qatar fa ciò per tre motivi. Il primo è quello che di considerare questi attori come una lunga manus del Paese. Soprattutto durante il periodo delle primavere arabe, mentre Arabia Saudita e Emirati Arabi optavano per la stabilità, cioè per supportare i regimi esistenti contro le primavere arabe, il Qatar decideva di supportare la Fratellanza Musulmana e le varie rivoluzioni in cui Fratelli giocavano un ruolo, in Egitto, in Siria, in Tunisia e in altri Paesi. Il secondo motivo è un motivo ideologico, di affinità ideologica.

Il Qatar ha una visione, un approccio all’Islam che è molto simile a quello dei Fratelli Musulmani. Personaggi come Yusuf al-Qaradawi, leader spirituale dei Fratelli Musulmani, scomparso due anni fa, ha creato in sostanza il sistema educativo islamico in Qatar. C’è un legame ideologico tra Qatar e Fratellanza che risale fino agli anni ’60. La terza motivazione infine è il volersi accreditare nei confronti della Comunità internazionale come interlocutore necessario verso attori problematici. Il protagonismo nelle trattative sugli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas è solo l’ultimo esempio della loro strategia.

Qual è il ruolo della Repubblica Islamica d’Iran nella destabilizzazione del quadrante mediorientale e in che maniera viene pianificata? Quali reazioni sarebbero auspicabili da parte della comunità internazionale?

È chiaro ormai a tutti che l’Iran ha creato e supporta un sistema di gruppi destinati alla destabilizzazione dei singoli paesi mediorientali. Questa è una dinamica che esiste in alcuni casi da decenni, come in Libano, in altri da tempo più recente, come nello Yemen. La Repubblica Islamica segue questa strategia di creare una serie di gruppi o di cooptarli – per lo più sciiti, ma anche sunniti come nel caso di Hamas – supportandoli militarmente e operativamente, con un ruolo di destabilizzazione interna – vedasi Yemen, Bahrain, Iraq, Siria – creando una serie di dinamiche nei paesi favorevoli a Teheran.

Ma non solo, c’è anche un ruolo più globale di destabilizzazione regionale attraverso una internazionalizzazione del loro operato. Come si evince in questa fase, nel momento in cui gli Huthi si rendono protagonisti di azioni come quelle che stanno facendo nel Mar Rosso, è chiaro come si trasformino da attore locale in Yemen, ad attore di importanza regionale e globale. La strategia iraniana, che è sotto gli occhi di tutti, è a Washington fonte di un dibattito senza soluzione finale.

Come affrontare la questione iraniana? Il gap è spesso politico tra democratici e repubblicani. Ad una visione democratica di appeasement –convincere gli iraniani a cambiare strategie e ammorbidirsi – si contrappone quella repubblicana che vede l’Iran un come un attore destabilizzante, che non può essere affrontato in altro modo se non con durezza. Stiamo entrando nel vivo della campagna elettorale americana e i due approcci tra Biden e Trump non potrebbero essere più diversi, dove Biden è un fautore dell’approccio soft, Trump di quello radicale.

Secondo alcuni analisti, l’allargamento degli “Accordi di Abramo” attraverso un’alleanza tra Israele e Arabia Saudita, sarebbe stata l’effettiva causa scatenante il feroce attacco a Israele del 7 ottobre. Quali sviluppi sono immaginabili in questa fase così cruenta che vive il Medio Oriente?

È molto complicato prevedere questi sviluppi. Ritengo che quello che sta succedendo in Medio Oriente ritardi solamente un processo che di fatto è più o meno inevitabile, sebbene con tutte le difficoltà del caso: l’inclusione di Israele nel blocco sunnita, con un rapprochement con l’Arabia Saudita.

È un fatto – e questo penso possa aver stupito molti – che nessuno dei paesi degli Accordi di Abramo, abbia preso negli ultimi mesi nessuna misura importante contro Israele. I vari governi arabi hanno sì espresso condanna nei confronti di alcune azioni di Israele, hanno espresso supporto alla popolazione civile palestinese, hanno mandato aiuti, non c’è dubbio, ma nessuno di questi paesi ha tagliato le relazioni diplomatiche con Israele, nessuno ha neanche ritirato i propri ambasciatori.

Diciamo che paesi come Arabia Saudita, Emirati, Bahrain, capiscono perfettamente cosa stia succedendo, cioè che Hamas è una lunga manus iraniana e che quanto avviene è parte di una strategia di Teheran, che vede l’Iran contrapposto ad Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, insomma il blocco sunnita. Non vanno trascurate le dinamiche interne, con simpatie profonde delle popolazioni arabe per i palestinesi e sentimenti anti israeliani molto diffusi, ma ritengo che il processo di inclusione di Israele, pur subendo un ritardo, pur tra tante difficoltà, alla fine proseguirà.

(Estratto di un’intervista pubblicata su Affarinternazionali)

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