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Giorgetti

Di cosa ciancia il Conte Rosso

Parole, mosse e aspirazioni (eccessive) di Giuseppe Conte. I Graffi di Damato

 

Avvistato dalle parti del Gargano da solo, senza la compagnia né della fidanzata né del portavoce, consigliere e aspirante senatore Rocco Casalino, in un Parlamento dove però i pentastellati rischiano di non tornare neppure, tanto sono messi male, Giuseppe Conte ha trovato il tempo, la voglia e persino il coraggio di esporre la sua ultima, o penultima ambizione, direbbe forse il suo strano, anzi stranissimo amico Beppe Grillo. Che da quando gli ha concesso la presidenza del MoVimento 5 Stelle, dopo una sfuriata sbollita davanti a un branzino, gli alterna abbracci e sgambetti, aperture e chiusure, come quella appena opposta alle deroghe al divieto di un terzo mandato parlamentare. Di cui invece l’ex presidente del Consiglio —sempre che, ripeto, riesca ad approdare personalmente alle Camere e a portarsi appresso qualcuno — avrebbe bisogno per soddisfare almeno a livello di candidature i tanti impegni presi con i suoi sostenitori in quella tonnara che è diventato il movimento.

Intervistato dal Corriere della Sera, che lo ha riportato in prima pagina, Conte ha contrapposto un suo “campo giusto” al campo largo o aperto che gli ha improvvisamente chiuso il segretario del Pd Enrico Letta, impegnato adesso a cercare alleati nell’area di centro, e naturalmente al centrodestra di Berlusconi, Meloni e Salvini, in ordine per ora solo alfabetico. Un “campo giusto”  che vorrebbe essere “il terzo incomodo” di questa corsa alle nuove Camere: un campo più rosso di quello che si è proposto il Pd inseguendo Carlo Calenda e i transfughi di Forza Italia, e forte programmaticamente di quei nove punti di “discontinuità” e “cambio di passo” inutilmente proposti prima della crisi al presiedente del Consiglio Mario Draghi. Che fu tanto poco riguardoso politicamente e personalmente da non citarne neppure nel discorso della verifica parlamentare pronunciato la settimana scorsa al Senato il documento presentatogli da Conte in persona.

Incalzato dall’intervistatore generosamente sulla strada francese di Mélenchon, che da sinistra ha creato a Macron problemi forse maggiori della destra lepenista, l’ex avvocato del popolo ha cercato di sottrarsi dicendo genericamente che la sua “agenda” — perché c’è anche la sua, oltre a quella di Draghi vantata in qualche modo dal Pd — “punta a ridurre le disuguaglianze sociali”. Se non è Mélenchon,  insomma, poco gli manca pur in un’area ristrettissima, costituita dai cespugli, o poco più, di sinistra refrattari al Pd, e da un Alessandro Di Battista auspicabilmente recuperato dai suoi viaggi in America Latina e in Russia al MoVimento abbandonato per protesta contro la partecipazione dei grillini al governo Draghi un anno e mezzo fa. “Non ci sentiamo da tempo, ma lo faremo presto”, ha detto Conte di Di Battista, appunto, lusingandolo con la promessa che “la collocazione euro-atlantica” vissuta con tanta sofferenza dal metaforico guerrigliero romano sarà “senza inginocchiamenti” agli odiati Stati Uniti.

C’è tuttavia chi ancora spera, nel Pd e dintorni di sinistra, che nella sua versione rossa Conte possa essere ancora recuperato ad una vasto schieramento anti-destra. È, per esempio, Carlo De Benedetti. Che, anche lui intervistato dal Corriere della Sera, facendosi portavoce di “mie fonti nel Dipartimento di Stato”, secondo cui “l’amministrazione americana considera orripilante la prospettiva che questa destra vada al governo in Italia”, dove “Berlusconi non c’è più” perché “ci sono le sue badanti che rispondono a Salvini e c’è la Meloni”, ha detto che i 5 Stelle, pur “finiti”, andrebbero imbarcati nella carovana dell’anti-destra “in una logica di Cln”. “Nel Comitato di Liberazione nazionale — ha ricordato De Benedetti — c’erano tutti, comunisti e monarchici, azionisti e cattolici perché bisognava combattere un nemico comune, Mussolini”. Che starebbe evidentemente tornando in un altro sesso, con gli stivali di Giorgia Meloni.

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