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Vi racconto la Torre di Babele dei partiti americani

Pochi ammettono che i Democratici scontenti hanno decretato la vittoria di Trump. La nota diplomatica di James Hansen.

Tra poco meno di due mesi—l’inaugurazione si svolgerà il 20 gennaio—Donald Trump diventerà il 47esimo Presidente degli Stati Uniti. La sua elezione, una vittoria schiacciante, ha scioccato il resto del mondo più di quanto abbia sorpreso invece la popolazione americana. Trump non è precisamente ‘popolare’. Non sfugge a nessuno, nemmeno ai suoi sostenitori, che è uno spaccone antipatico e confusionario, uno che dice qualunque cosa gli venga in mente senza pensarci troppo. L’esito del voto rappresenta, per molti versi, più che un’espressione della volontà popolare, una sorta di vendetta degli elettori rispetto a un Establishment politico Democratico—ma anche Repubblicano—che ha deluso. Il vento è cambiato, la leadership dei due partiti non lo ha capito e il pubblico gli ha lanciato contro Trump, come un sasso contro una vetrata.

È troppo facile da questa parte dell’Oceano interpretare il ruolo dei partiti politici Usa in termini europei; non hanno né la stessa organizzazione, né le stesse finalità dei partiti continentali, che sono invece tendenzialmente ben strutturati, gestiti attraverso meccanismi di tesseramento e che spesso hanno una precisa base ideologica, insieme con gli strumenti di disciplina interna per garantire una sufficiente ‘purezza di pensiero’ tra gli iscritti.

I due partiti americani sono tra i più vecchi del mondo. La fondazione del Partito Democratico risale al 1828 e quella del Partito Repubblicano al 1854. Ovviamente, ne è passata di acqua sotto i ponti in questi due secoli e le due organizzazioni hanno reagito occupando in varie fasi praticamente ogni casella della scacchiera ideologica. Per esempio, i ‘Dem’ sono stati a lungo il partito degli schiavisti del Sud e, dopo la sconfitta nella Guerra Civile americana (1861-1865) e l’abolizione della schiavitù da parte di un governo Repubblicano, i Democratici sono stati i ‘protettori’ della segregazione razziale—sempre avversati dai Repubblicani ‘abolizionisti’.

Questo almeno nel Sud, mentre nel Nord i Democratici hanno cominciato a cercare legami con i movimenti sindacali, il che dà un’idea della scarsa ‘coerenza ideologica’ che regnava allora nei partiti americani. I Repubblicani, invece, molto ‘nordisti’ e spinti da pulsioni di tipo ‘liberal-radicale’—tant’è che non ammettevano la schiavitù degli afroamericani—hanno cominciato ad allargarsi, ben oltre i professionisti e i ‘borghesi protestanti’ che li avevano sostenuti sin dalle origini, includendo gli emergenti ceti produttivi dell’Est e dell’Ovest e diventando strada facendo un partito dal sapore ‘benestante’.

Per complicare ulteriormente le cose, la vasta estensione territoriale degli Stati Uniti ha fatto sì che il ‘carattere’ dei due partiti fosse parecchio variabile dal punto di vista geografico e che le strutture ‘centrali’ fossero di conseguenza molto deboli. Il risultato di tutto questo è che la ‘appartenenza’ a un partito è poco più che un’etichetta di cui è facile disfarsi a necessità: per esempio, quando si vuole mandare a casa una classe politica intera… Donald Trump è stato votato da Democratici infelici quanto dai Repubblicani. Ecco la fonte dell’inattesa valanga elettorale.

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