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Perché Trump su Twitter ha stritolato il negoziato commerciale con la Cina

Che cosa cela il tweet di Trump su dazi e Cina. Il Punto di Marco Orioles

 

Com’è noto, la politica della Casa Bianca nell’era di Donald Trump è un processo turbolento in cui i fiat del boss dettano legge e possono stravolgere all’ultimo minuto le decisioni maturate in precedenza. Ne abbiamo avuto l’ennesima riprova ieri, quando un doppio cinguettio del presidente – scagliato nel web nel cuore della domenica – ha stravolto il negoziato commerciale con la Cina.

https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1125069835044573186?s=21

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1125069836088950784?s=20

L’irruento The Donald entra dunque a gamba tesa nel negoziato in corso – che procede, a suo dire, “troppo lentamente” –  decidendo di alzare a partire da venerdì dal 10% al 25% i dazi su 200 miliardi di dollari di merci cinesi importate dagli Usa e di imporre ulteriori dazi del 25% su 325 miliardi di dollari di prodotti fino ad ora risparmiati dalla furia trumpiana. Tutto questo alla vigilia della visita a Washington della delegazione cinese che, guidata dal vicepremier e capo negoziatore Liu He, avrebbe dovuto partecipare all’undicesimo round dei colloqui bilaterali finalizzati a raggiungere un accordo tra le parti.

Va da sé che la visita di Liu e del suo seguito, come ha annunciato stamattina il South China Morning Post, adesso è in forse, così come l’esito di un negoziato che il mondo intero sta seguendo con il fiato sospeso.

E pensare che, fino a ieri mattina, tutto sembrava scorrere liscio, o quasi. Mercoledì scorso, a Pechino, si erano presentati il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin e il Rappresentante al Commercio Robert Lightizer per prendere parte al decimo round dei colloqui bilaterali. Al termine della sessione, Mnuchin si era affidato a Twitter per rendere noto che gli incontri erano stati “produttivi” e che la delegazione cinese si sarebbe recata negli Usa questa settimana per proseguire un negoziato giunto ormai al tornante decisivo.

Prima di imbarcarsi per la Cina, Mnuchin aveva anche dichiarato – intervenendo alla Global Conference del Milken Institute a Los Angeles – che il negoziato era giunto “alle battute finali”. “Abbiamo fatto molti progressi , spiegava il Segretario al Tesoro al New York Times, aggiungendo che, secondo lui, “entrambe le parti desiderano raggiungere un accordo”.

Dall’amministrazione Trump continuavano a filtrare note di ottimismo: ancora qualche giorno fa sembrava che l’accordo fosse imminente e che il presidente cinese Xi Jinping si sarebbe recato a breve negli Stati Uniti per firmare l’intesa con il suo collega americano.

Ma dietro le parole di circostanza si celava un’altra verità: come nota ancora il NYT, Usa e Cina erano arrivati ad un bivio oltre al quale erano possibili due soli risultati, la sigla di un accordo finale o un clamoroso fallimento. Come hanno chiarito varie fonti al corrente dei colloqui in corso, le distanze tra le parti si sono accorciate su alcuni punti, ma restano siderali su altri. L’impazienza di Trump lo avrebbe spinto così a prendere la decisione di scrivere quel doppio tweet, che va letto in due modi: o come segnale di sfiducia, o come il tentativo di forzare la mano dei cinesi riluttanti a compiere le scelte che ci si attende da loro.

Cosa può aver spinto dunque The Donald a compiere questo intervento a gamba tesa? Secondo “persone al corrente della situazione” menzionate sempre dal NYT, dietro la mossa si intravede una differenza di valutazioni tra Mnuchin e Lightizer sull’andamento dei colloqui: se il primo resta fiducioso sulla possibilità di raggiungere un’intesa, per il secondo – noto per avere posizioni particolarmente dure nei riguardi della Cina – le conversazioni non hanno partorito i risultati desiderati.

L’insoddisfazione di Lightizer sul possibile “deal” che si profila all’orizzonte si sarebbe trasferita al commander in chief, che avrebbe deciso di sfoderare l’arma da lui prediletta: i dazi. Non è superfluo ricordare che l’attuale presidente ha scelto questo strumento in altre circostanze e con altri Paesi – il Messico, il Canada, l’Unione Europea. Saremmo pertanto di fronte all’opzione trumpiana preferita in situazioni nelle quali si intende costringere l’interlocutore a conformarsi.

Non devono essere stati estranei alla decisione del capo della Casa Bianca poi gli ottimi risultati dell’economia a stelle e strisce, che ha segnato una crescita nel primo trimestre di quest’anno del 3,2% e registrato questo venerdì un calo record della disoccupazione, mai così bassa negli ultimi cinquant’anni. Tutti segnali che, agli occhi del tycoon, indicano che la direzione presa è quella giusta.

Un altro motivo che ha contribuito alla mossa di ieri rimanda poi agli umori del mondo politico. Numerose voci di entrambi i partiti hanno incoraggiato la Casa Bianca ad assumere una posizione di inflessibilità nei confronti dei cinesi. Se accordo deve essere, è il suggerimento, deve soddisfare al 100% le istanze dell’America. Altrimenti, meglio nessun accordo. Non è un caso se, dopo il tweet domenicale di Trump, sia arrivato il plauso del leader dei senatori democratici Chuck Schumer.

In America, però, è diffusa anche la preoccupazione per le possibili conseguenze di un “no deal”, e sono molte le voci che segnalano angosciate le ripercussioni negative degli attuali dazi imposti alla Cina. Spicca, in questo contesto, lo studio –  citato dalla CBS –  realizzato a marzo dagli economisti della Federal Reserve Bank di New York, della Columbia University e della Princeton University, che mostra come il peso dei dazi sull’acciaio, l’alluminio, i pannelli solari e altri prodotti made in China ricada sulle tasche dei consumatori e delle aziende americani, costretti a pagare le merci cinesi con un significativo sovrapprezzo. Secondo i dati illustrati nello studio, alla fine dell’anno scorso consumatori e imprese estraevano dal portafoglio almeno 3 miliardi di dollari in più al mese.

Questo aggravio, insieme alle ripercussioni sulla crescita interna e su quella globale, è ciò che ha spinto molti negli Usa e non solo a tifare per il raggiungimento di un accordo. Tra i sostenitori di un deal si può annoverare il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, che in un incontro la settimana scorsa menzionava con sollievo “i resoconti di progressi nei colloqui commerciali tra Stati Uniti e Cina”, a cui andrebbe attribuito il recente recupero delle quotazioni dei titoli azionari.

Speranze che adesso vengono dissipate dall’ultimo, repentino cinguettio del presidente. Le borse asiatiche hanno aperto la giornata di lunedì con significative flessioni. In attesa di vedere cosa succederà in quelle occidentali, a noi non resta che registrare l’improvviso deragliamento del treno del negoziato commerciale più importante del momento.

(estratto del Taccuino estero di Marco Orioles per Policy Maker)

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