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Daniele Vimercati

Il mio ricordo di Daniele Vimercati. Firmato: Federico Guiglia

Per ricordare Daniele Vimercati, morto 20 anni fa (il 27 marzo 2002), ripubblichiamo un estratto dell’introduzione scritta da Federico Guiglia al libro "Daniele Vimercati - Ritratto di un giornalista che amava la libertà" (2003)

 

Il lettore ci perdoni, se può: non c’è niente di più patetico di un giornalista che scrive di un altro giornalista. E la pratica, purtroppo, va di gran moda. I giornalisti amano intervistarsi tra loro, elogiarsi gli uni con gli altri, parlar bene (o male) gli uni degli altri. Invece che inquieti testimoni del proprio tempo, credono di appartenere a un club di maestrine.

Ecco, Daniele Vimercati non apparteneva al club. Il club non s’era mai accorto di questo ragazzo che veniva dalla sana provincia, da Bergamo, Italia.

Intendiamoci, non che lui ansimasse per entrare nella cerchia di quelli che non raccontano più, ma che se la raccontano: era comunque discreto, l’impertinente. Ma ne avrebbe meritato – come dire? – l’accesso d’ufficio. Scriveva da svariati anni. Scriveva articoli e scriveva libri. Scriveva bene.

Negli ultimi tempi appariva in televisione, perfino, conducendo un affermato programma su Telelombardia: Iceberg. Un nome, uno specchio, perché anche lui, alto e distaccato, nascondeva un cuore grande sotto il testone che emergeva con o senza cappello (gli piaceva portarlo). Daniele non era solo un buon giornalista: era anche un giornalista buono. […]

Nonostante l’elogio postumo, e davvero da parte di tutti, Daniele ha pagato professionalmente in vita il peccato d’origine d’essersi formato al Giornale di Indro Montanelli, che fu palestra di libertà e di italianità negli anni in cui anticomunismo era sinonimo di fascismo e la patria, naturalmente minuscola, inutile nostalgia. Una palestra controcorrente, che non ha impedito ma, anzi, stimolato Daniele Vimercati a diventare il primo e più appassionato narratore del ‘fenomeno-Lega’. Narratore raffinato e intelligente, a tratti ingenuo, sempre divertente e divertito. Lui intuì lo sbocco nazionale che poteva avere, e avrebbe avuto, quel partito del Nord. Questo per dire che alla politica guardava più da presbite che da miope: poteva inciampare dietro una polemica di giornata, ma capiva come sarebbe andata a finire. Aveva il passo lungo, lo spilungone.

Diverse sono state le sue direzioni di giornali, ma l’approccio col ‘mestieraccio’ non è cambiato mai. Intanto ne conosceva i fondamentali, cioè sapeva non solo scrivere ma anche ‘passare’ un pezzo, come si dice in gergo, ovvero capire al volo che cosa non funzionasse di un testo prima della pubblicazione (anche se il meglio di sé lo dava nel titolare gli articoli).

E poi aveva un rapporto non neutrale ma sempre onesto con la politica. Solo i fanatici, del resto, credono che possa esistere un giornalismo ‘obiettivo’, e lui, tra l’altro, era un moderato. Perciò si schierava, quando c’era da schierarsi – accadeva sovente -, ma senza impugnare la penna come la spada. Non coltivava il dubbio di poter avere torto, ma quello, più nobile, che l’altro potesse avere ragione.

Per questo era bello non già andare d’accordo con Daniele, il che era facile, ma dissentire da lui, il che era ancora più facile. “Solo un nazionalista come te può andare d’accordo con un federalista come me”, mi diceva tutte le volte che sul Borghese – lui direttore, io vice – provavamo a raccontare le vicende della politica. […]

In fondo da lì si veniva entrambi, da quelle scrivanie appaiate nella redazione romana del Giornale, e prima ancora da quei lunghi corridoi pieni di luce eppur spenti nella sede storica di Milano. Si veniva dai pezzi che uno ‘passava’ dell’altro, e dai pezzi di scacchiera, altra passione, che uno muoveva contro l’altro. Bianco o nero anche qui, nessuna zona grigia, nessun compromesso, nessuna ‘democristianeria’, come ci incitavamo, ironici, prima di buttarci a scrivere i ‘fondi’, a cui siamo stati col tempo condannati (sì, condannati: tre commenti indovinati non valgono un bel racconto).

C’è una lezione che si può trarre dal giornalista Vimercati? Forse sì: che si può dire pane al pane, senza essere camerieri di nessuno e senza fare girotondi contro qualcuno. Se c’è una terza via fra il giornalismo che subisce e il giornalismo che inveisce, essa porta sicuramente il nome di Daniele. Se il giornalismo ‘vive’ senza servire il potere e senza servirsene, un po’ di questa vita è ormai alimentata anche dalla testimonianza di Daniele.

Rimane, però e perciò, l’amaro interrogativo di fondo: perché uno così non veniva chiamato a dirigere Panorama invece che il Borghese? Perché uno così non veniva invitato a fare il suo Iceberg per la Rai o per Mediaset invece che per Telelombardia? Perché uno così, che in qualunque posticino del mondo, sarebbe stato professionalmente valorizzato soltanto per come, per quanto e per che cosa avesse scritto e scrivesse, qui doveva pagare l’inconfessabile pedaggio di non essere mai stato di sinistra?

“C’è un conduttore di talk show politici che è più bravo di Bruno Vespa e di Michele Santoro. È più bravo, perché non è così spocchioso come i due sapientoni del video, e perché non ha la Rai alle spalle. Si chiama Daniele Vimercati…”. Così scriveva Aldo Grasso su Sette il 21 febbraio del 2002. Daniele ha fatto in tempo a leggere la meritata consacrazione sancita dall’esperto di cose televisive.

Era di quei giornalisti rari e cari che sempre, prima di chiudere la conversazione al telefono, si ricordano di chiedere: “Come sta la signora? E i bambini?”. Era di quei giornalisti che amano viaggiare per il gusto di sapere un po’ di più. Perché prima di essere giornalisti, forse si è, si può essere persone, cittadini, padri e madri di famiglia e tante altre cose.

Il nostro è solo il mestiere più bello del mondo, ma nella vita ci sono missioni un pochino più importanti, in fondo.

Ma stiamo divagando. Arrivati alla fine, temiamo di affrontare la verità, che è una sola: Daniele ci manca.

Federico Guiglia

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