A Natale Papa Leone ha giustificatamente lamentato il dileggio di chi crede, in coincidenza con un’azione militare Usa in Nigeria tesa proprio a difendere i fedeli, prime vittime delle violenze che si compiono in quello e altri scenari del turbolento continente africano. Già questo pone un problema. Il Santo Padre sostiene, sempre comprensibilmente, che la fede si sposi con la pace, valore cristiano e natalizio per eccellenza. Ma il motto latino “si vis pacem para bellum” è oggi molto in voga e l’Occidente si divide proprio tra chi ritiene che diritto, giustizia e fine delle guerre vadano difesi accettando compromessi e chi propende per prove di forza. Gli stessi vescovi cattolici appaiono divisi sul tema: vedansi le interviste di ieri dei cardinali Bagnasco sul Giornale e Lojudice sulla Stampa.
Questa bipartizione conta ben più che quella tra chi parteggia con una o l’altra fazione, essendo pochissimi i sostenitori dichiarati di aggressioni, invasioni, persecuzioni e deportazioni compiute da russi e integralisti islamici. Anche se abbondano gli ambigui distinguo, per esempio quelli degli iper-garantisti critici sull’operazione compiuta ieri contro i sospetti finanziatori di Hamas, che avrebbero distratto per finalità terroristiche persino i fondi pro Pal.
Ma restiamo all’invocazione di Prevost, perché a indebolirci non sono tanto le divisioni di merito né di metodo, il primo vulnus è la mancanza di fede. Il processo di secolarizzazione, laicizzazione, nichilismo, ateismo, agnosticismo, relativismo o come lo si voglia chiamare. Complesso e pervasivo, ha portato la società e anche la Chiesa ad accettare la sostituzione del credere con l’etica, ha diffuso l’idea che basti comportarsi bene e non importi ciò che si pensa di Dio, dell’aldilà o del peccato. Ma quando il fare non poggia sulla convinzione teorica la soggettività diventa inevitabile e si genera il confuso calderone in cui viviamo. Il personale diviene oggettivo, il desiderio diviene diritto. Anzi, si lamenta ancor più ciò che ci infastidisce ma senza assumersene la responsabilità (che è la vera declinazione del peccato, più della colpa).
Ecco allora l’indifferenza sulle persecuzioni e sulle barche di migranti naufragate, tragedie che richiedono una certa profondità concettuale prima che fattuale. Ecco che si polemizza sulla scristianizzazione del Natale, ma senza andare a Messa. Che cerchiamo di stabilire chi abbia “ragione” tra Corona, Signorini, le aspiranti star del GF e i loro manager, come se il caos nascesse dai torti e non dalle troppe ragioni, come invece è. Ecco che proviamo a dare sempre un significato, come se tutto fosse causato e causa di qualcosa, senza trovare il senso di nulla.
Anche la querelle tra e su gli intellettuali di destra si può ricondurre in quest’alveo: quante opinioni sono espresse al netto delle posizioni personali; non sarà che appoggia il governo chi ne ricava vantaggi o ruoli e lo contesta chi se ne reputa emarginato? Da parte progressista, peraltro, l’elaborazione intellettuale è tanto peggiore che professa il bene “quasi” universale, ostacolando l’intitolazione di una scuola a Sergio Ramelli, un ragazzino di destra ucciso nel 1975: la Cgil di Lecce la definisce “una provocazione” contro i valori antifascisti costituzionali.
Per fortuna ci soccorre Checco Zalone, in perenne gara con se stesso come recordman del cinema italiano, unico artista italiano contemporaneo con Fiorello (e Renzo Arbore nella generazione precedente) capace di unire qualità del prodotto e quantità del consenso scattando impietose, asettiche, crudelmente chirurgiche fotografie del reale. Perché se non si crede, se non si è disposti a cambiare in ciò che dovrebbe essere il proprio sé, l’unica è accettarlo, fustigandolo col sarcasmo. Che vale certo meno della fede, ma aiuta a tirare avanti senza prosopopea, il che non è pochissimo.







