La notizia ufficiale, rigorosamente diffusa con l’evidenza che merita da gazzettieri, pennivendoli e via scorrendo gli aggettivi che assegnava la buonanima di Ugo La Malfa ai giornalisti da lui considerati renitenti alla sua visione di cose, situazioni e uomini, o donne, è la bocciatura parlamentare del governo francese di Francois Bayrou. Battuto riferendo, anzi confermando lo stato della Francia come un paese dei balocchi, come peraltro è capitato spesso all’Italia di essere considerata sia nella prima Repubblica sia nella seconda, pur fra le proteste dell’ex ministro democristiano del bilancio, ancora felicemente in vita, Paolo Cirino Pomicino, di tendenza andreottiana.
“Voi potete rovesciare il governo, ma non la realtà”, ha detto il premier francese prima di essere licenziato con 364 voti contro 194 da un Parlamento deciso a liberarsi intanto di lui, rinviando ad altra data i conti con la realtà, appunto. Che in Francia è anche di grandissima tensione sociale, fra scioperi e manifestazioni.
La notizia ufficiale, dicevo, è questa. Quella non ancora ufficiale, per le resistenze che l’interessato oppone alle sue dimissioni reclamate da destra e da sinistra, in Parlamento e nelle piazze, è la crisi ormai irreversibile del presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron. O del “macronismo”, come viene definito il suo stile, metodo e contenuto di governo solo nominalmente guidato dal premier di turno, da lui stesso scelto e affidato al logoramento parlamentare e sociale. Un macronismo che non ne fa un Napoleone dei nostri tempi, come dicono sarcasticamente i suoi avversari e lui stesso un po’ si compiace di essere considerato, ma solo una mezza caricatura.
Ciò nuoce non solo al presidente arroccato nella difesa di un mandato che gli scadrà irrevocabilmente fra due anni. Nuoce anche, o soprattutto, alla Francia e pesino all’Europa in questa congiuntura internazionale di passaggio dal vecchio ordine mondiale concordato a Yalta 80 anni fa e quello nuovo che sono ormai in troppi a volere definire. E che impiegherà chissà quanto a realizzarsi imponendosi alle guerre in corso così tanto diffuse e radicate che il candidato al premio Nobel della pace Donald Trump, da sette mesi di nuovo alla Casa Bianca per altri quattro anni, ha appena restituito alla Guerra, con la maiuscola, il titolo del Dipartimento della Difesa, anch’essa con la maiuscola.
In questa situazione internazionale è comprensibile, per carità, la soddisfazione attribuita nella vignetta di Stefani Rolli sul Secolo XIX alla premier italiana Giorgia Meloni, che si appresta a celebrare i tre anni trascorsi ininterrottamente alla guida del governo di centrodestra. Cui le opposizioni si accontentano – entusiasticamente, addirittura – di allestire alternative locali. Comprensibile, dicevo, la soddisfazione satirica della Meloni. Ma non sufficiente, o non ancora, a produrre tanta fiducia quanto ne occorre, almeno in Europa.