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Mafia

Vi racconto genesi e attualità della crisi cronica del Kosovo

"Per come ho vissuto per tre anni l'esperienza sul campo, l'idea (peraltro sbagliatissima) di 'esportare e imporre la democrazia' non c'entra con le responsabilità internazionali nella crisi cronica del Kosovo". L’intervento di Marco Mayer, docente al Corso di Intelligence e Sicurezza Nazionale della Lumsa e al Master in Cybersecurity della Luiss

 

L’articolo del generale Carlo Jean sulla crisi in Kosovo ha il merito di andare al nocciolo del problema.

Europa e Stati Uniti pagano a quasi 25 anni di distanza un errore iniziale di impostazione troppo ideologica che — come giustamente osserva Carlo Jean — è stato compiuto in Kosovo e non in Bosnia-Erzegovina.

Gli accordi di Dayton per la Bosnia del 1995 — coordinati con grande energia e acume diplomatico da Richard Hoolbrook — avevano, invece, tenuto in debito conto le fratture storico-identitarie che caratterizzano le guerre civili e i conflitti interni dei Balcani e non solo.

L’ILLUSIONE EURO-ATLANTICA IN KOSOVO

In Kosovo il principio ispiratore della politica euro-atlantica (anche se mai dichiarato così esplicitamente) era l’illusione di creare da zero una nuova e astratta entità multietnica capace di cancellare di colpo le storie e le identità culturali di comunità profondamente diverse per lingua, religione, tradizione e costumi. In Kosovo la coesistenza (con rare occasioni di convivenza) della larga maggioranza albanese con la minoranza serbo-ortodossa e con gli altri gruppi minori (bosniaci, montenegrini, rom, gorani, ashkaly, egyptian, ecc.) è stata quasi sempre difficile e tormentata.

A proposito della popolazione serba in Kosovo, è utile, inoltre, ricordare un elemento recente. Il numero dei serbi residenti in Kosovo nell’estate del 1999 si è bruscamente dimezzato. Le diverse fazioni dei guerriglieri albanesi dell’UCK — appena cessati i bombardamenti della Nato — con minacce e violenze hanno cacciato dalle loro case le famiglie serbe dovunque hanno potuto.

I CRIMINI CONTRO LA POPOLAZIONE ALBANESE, E LA REAZIONE VERSO I SERBI

Ho lavorato per le Nazioni Unite in Kosovo dall’ottobre 1999 al dicembre 2022. Quando sono arrivato per la prima volta (era il novembre ’99) a Pec/Peja — sede del Comando italiano responsabile della KFOR/NATO per l’area del Kosovo occidentale —, la presenza serba era ridotta al lumicino.

Nel giugno del 1999 il contingente italiano della Garibaldi — guidato dal generale Mauro Del Vecchio — era riuscito a mettere in sicurezza soltanto una piccola parte della comunità serbo-kosovara: il Patriarcato di Pec, il Monastero di Decani, il villaggio di Gorazdevac abitato all’epoca da più di mille cittadini serbo-kosovari (oggi purtroppo ridotti a 450) e altre piccolissime realtà. Nelle città di Pec/Peja e Djakovica/Giakova non era rimasto praticamente nessuno, salvo quattro o cinque signore serbe iperprotette dai militari italiani..

L’apartheid prima e i crimini poi contro la popolazione albanese in Kosovo commessi dalle forze regolari e dalle feroci bande paramilitari di Milosevic sono state di inaudita gravità come ha verificato anche il Tribunale internazionale sui crimini della ex Jugoslavia.

Tuttavia nessuno si aspettava una violenta reazione generalizzata verso tutti serbi, anche contro quelli che avevano un rapporto di amicizia e/o di buon vicinato con i concittadini albanesi.

L’esodo è stato davvero molto consistente, se si pensa che nel censimento del 1991 a Pec/Peja serbi e montenegrini risultavano 15.000 su circa 60.000 abitanti della città. Per quanto riguarda le cifre complessive, si stima che almeno 200.000 persone di cultura e lingua non albanese abbiamo lasciato il Kosovo.

Questi dati confermano gli errori politico-ideologici a cui ha accennato il generale Jean. Il dato più emblematico è la mancata previsione da parte delle intelligence militare della rapidità e pervasività del processo di “contropulizia” etnica messo in atto dai guerriglieri kosovaro-albanesi.

LE RESPONSABILITÀ OCCIDENTALI IN KOSOVO

Le responsabilità occidentali in Kosovo non sono legate — qui dissento dal generale Jean — al fatto che gli Stati Uniti e l’Europa avrebbero voluto “imporre la democrazia”. Per come ho vissuto per tre anni l’esperienza sul campo, l’idea (peraltro sbagliatissima) di “esportare e imporre la democrazia” non c’entra con le responsabilità internazionali nella crisi cronica del Kosovo. L’esportazione della democrazia con le armi è peraltro una teoria successiva, di matrice neocon, di cui Paul Wolfowitz è stato il sostenitore più influente con l’arrivo di  Bush junior alla Casa Bianca.

Ciò che non ha funzionato è l’incapacità di trovare il giusto equilibrio istituzionale tra maggioranza e minoranze, un problema che affligge — sia pure in forme diverse — sia le democrazie che i regimi autocratici (basti pensare alla martoriata storia della Cecenia non certo risolta con il protagonismo di Kadyrov voluto da Putin).

LE DIFFICOLTÀ DI TROVARE SOLUZIONI

Per spiegare meglio le grandi difficoltà di trovare soluzioni, racconto la mia esperienza diretta nelle quattro municipalità serbe dove in questi giorni si sono svolti gli scontri.

Nell’estate del 2002, d’intesa con il responsabile regionale dell’Onu David Mitchels, avevo avviato una trattativa e raggiunto un buon compromesso che consentiva la partecipazione della comunità serba di Mitrovica alle elezioni comunali; il nostro interlocutore era il dott. Marko Jaksic, leader intransigente e molto noto dei serbo kosovari. La richiesta serba — all’epoca improponibile — era dividere la città in due (a sud del fiume agli albanesi, il nord ai serbo-kosovari). Dopo una serie di incontri, l’ipotesi di mediazione fu quella di mantenere un consiglio comunale unitario per l’intera città e istituire due consigli di circoscrizione.  A queste condizioni i serbi avrebbero partecipato alle elezioni municipali.

Non avevamo inventato niente di nuovo, ci eravamo semplicemente ispirati all’accordo De Gasperi/Gruber per il Trentino-Alto Adige a cui accenna il generale Jean nel suo articolo.

Tuttavia Michel Steiner, all’epoca capo della Missione Onu in Kosovo, bocciò seccamente la nostra proposta perché a suo avviso non rispettava i principi di multietnicità (sic), dimostrando una imperdonabile miopia.

Cosa succederebbe se si applicasse la visione ideologizzata di Steiner alla Catalogna in Spagna, alla Scozia nel Regno Unito, al Québec in Canada, eccetera? Non si tratta forse di democrazie, e tra le più avanzate?

Sono passati più di vent’anni ed è triste pensare che siamo sempre sempre a quel punto; anzi, peggio.

La situazione si è ulteriormente incancrenita. Continuando di questo passo, il futuro del Kosovo sarà monoetnico, sarà solo albanese; un esito paradossale, l’esatto contrario delle promesse del 1999.

Ma non è mai troppo tardi. La speranza è che gli inviati speciali per i Balcani degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che proprio in questi giorni sono impegnati in vertici operativi, assumano un atteggiamento di grande fermezza nei confronti di Pristina.

Se non saranno riconvocate al più presto le elezioni comunali nelle quattro municipalità del nord, e se la minoranza serba del Kosovo non avrà gli strumenti e le istituzioni in grado di tutelare la propria identità culturale, il percorso di avvicinamento del Kosovo verso la Ue e la Nato dovrà essere sospeso così come la liberalizzazione dei visti pianificata per il 1° gennaio 2024.

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