Mattia Feltri è l’unico a evidenziare, sulla crisi francese, una dichiarazione di Bayrou: “Avete il potere di rovesciare il governo ma non quello di cancellare la realtà”. “La frase che scolpiremo sulla lapide della democrazia”, sottolinea l’editorialista della Stampa, uno dei pochi a grattare sotto la superficie delle notizie del giorno per cercare di capirne il senso. Per carità, la crisi delle democrazie non è la scoperta del secolo, è cosa stranota, ma la contingenza stimola a rifletterci un momento ancora.
La crisi francese è stata seppellita dalla generale antipatia per Macron e per il suo sfiduciato primo ministro e dalla preoccupazione per le conseguenze di un’instabilità che mina ulteriormente l’Europa, date quelle pendenti in Germania, Spagna, Gb e nella stessa Unione (di cui lamentano la debolezza coloro che ne sono stati quanto meno concausa come Prodi, Draghi e Tajani). Si tratta di due sentimenti opposti ma che condividono la valutazione sullo scollamento, o conflitto, tra mandato elettorale e decisioni degli eletti. Quasi nessun governante ha coraggio e forza per prendere misure necessarie, magari indispensabili, ma scomode e sgradite. Si preferisce il facile consenso che arriva dai bonus: 110%, PNRR, ZES via via allargata, fino a quelli quello per i prof, la cui odierna notizia segue quella delle assunzioni a favore della scuola. Ma come, abbiamo meno giovani e meno studenti (c’è anche un problema di attrattività dell’istruzione) e investiamo sempre di più nel settore?
Gli antipaticissimi Bayrou e Macron sono in crisi anche perché si rifiutano di cedere al facile “populismo”. Propongono un piano di austerità da 44 miliardi di euro, volto a ridurre il debito pubblico ormai al 113% del PIL, e vogliono innalzare l’età pensionabile da 62 a 64 anni, come già approvato nel 2023 sotto Macron: la riforma che ha portato per mesi proteste di piazza e scioperi, animati da sindacati e partiti di sinistra, con tanti giovani che, in realtà, se ne sarebbero forse avvantaggiati.
Alla crisi democratica si aggiunge, strettamente correlata, la crisi della politica. Non esistono quasi più i partiti, soprattutto sono scomparse le loro strutture – dalle sezioni alle scuole, dai congressi fino ai comizi – che formavano le classi dirigenti, oggi affidate soprattutto alla chiamata o alla discesa in campo di presunti deus ex machina provenienti dall’economia, dallo spettacolo o dal caso. Vedi l’avvocato Giuseppe Conte e, prima e dopo di lui, Mario Draghi e Mario Monti, per non dire di Silvio Berlusconi e forse in futuro del di lui figliolo. Per carità, nessuno rimpiange certo Renzi, Letta o Gentiloni, ma il livello pare calare ulteriormente se, oggi, il Pd pensa (dicendolo a gran voce) di scalzare Giorgia Meloni con Elly Schlein e con il campo largo.
Quello che la segretaria Pd con i suoi allegati potrebbe fare, al massimo (non sarebbe poco) è sconfiggerla alle prossime Regionali, in primis nelle Marche che, per motivi non sufficientemente precisati, sono assurte a “Ohio italiana”, cioè voto locale il cui esito determinerà quello nazionale. In realtà potrebbe accadere l’opposto: se la maggioranza governativa perdesse malamente le amministrative dei prossimi mesi e settimane e si decidesse di tornare alle urne per le politiche, l’attuale premier potrebbe rivincere e stravincere.
Comunque, siamo nella pura immaginazione. C’è un solo elemento, legato alla crisi politica e democratica, che dà alle ipotesi un minimo realismo: l’enorme caos che entrambe le compagini in competizione stanno creando al loro interno, nel quale una delle dinamiche è far fuori gli amministratori uscenti o i possibili candidati con maggior popolarità (se non chance di successo), come Zaia, De Luca padre, Vannacci. Lato nostro, avanziamo solo una modestissima proposta per ridurre le fibrillazioni: accorpare le elezioni locali, trasformandole esplicitamente in midterm elections.