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Capitalismo Cingolani

Covid, la Cina e il più grande ossimoro della storia: il comunismo capitalista

Chi si fida di una Cina che ha gestito la prima fase del Covid-19 con il più classico dei cover-up da regime autoritario? Estratto del libro "Il Capitalismo buono" (Luiss University Press) scritto dal giornalista e saggista Stefano Cingolani

 

Il Great Lockdown, il grande confinamento, non è che una serie di trincee, una linea Maginot. Oggi come un secolo fa, quando l’Europa si suicidò, il mondo vaga senza una guida e senza una meta. Il triangolo delle grandi potenze, Stati Uniti, Cina e Russia, si è spezzato; le istituzioni che avevano costruito l’ordine internazionale dal 1945 in poi (l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, il Fondo Monetario Internazionale) sono deboli, divise, afone e impotenti. Il secolo americano è finito, il secolo asiatico sta già svanendo.

I singoli governi sono divisi sulla natura della pandemia, le sue origini e, ancor peggio, gli strumenti e le regole per affrontarla. La soppressione, la mitigazione, il contenimento flessibile, l’immunità di gregge, non c’è tattica che abbia dato risultati decisivi e alla fine davanti a noi vediamo una terra desolata dove crollano totem e tabù. Il Paese più ricco e potente, il vincitore della Guerra Fredda, l’artefice della globalizzazione, il leader indiscusso delle tecnologie digitali, il signore del dollaro, vera e unica moneta mondiale, guida la luttuosa classifica delle vittime. Quanto alla Cina, è avvolta dal mistero e dal sospetto.

Il contagio scoppia a Wuhan nel cuore di un’area ad alto sviluppo e mette in discussione il più grande ossimoro della storia: il comunismo capitalista. Le incertezze, le coperture, le menzogne della prima fase hanno fatto perdere a Xi Jinping una occasione storica: poteva mostrare di aver impresso una nuova direzione al suo immenso Paese e non lo ha fatto. La via della seta, la Belt and Road Initiative, il mega-progetto per penetrare in Occidente con un mix di ideologia, cultura e denaro, è ormai bloccata per ragioni politiche ed economiche, non solo sanitarie. Chi si fida di una Cina che ha gestito la prima fase del Covid-19 con il più classico dei cover-up da regime autoritario? La pandemia ha messo sotto pressione l’intera struttura economica, ha fatto aumentare l’indebitamento, che scava le fondamenta del sistema.

Tenuto a lungo nascosto negli anfratti delle banche e delle amministrazioni locali, viene alla luce nel momento in cui si tratta di mobilitare ingenti risorse per far fronte alla crisi. Nel primo trimestre del 2020 il prodotto lordo è caduto del 6,8 per cento  dopo vent’anni di crescita ininterrotta. Secondo Andrew Tilton, capo economista della Goldman Sachs per l’Asia e il Pacifico, se proiettiamo questa tendenza su base annua vediamo che la Cina rischia di subire il colpo peggiore dal 1976, l’anno in cui morì Mao Zedong. Per la leadership cinese questo doveva essere l’anno del trionfo, ora si trova davanti un pozzo senza fondo, sostiene Jonathan Cheng sul Wall Street Journal: una crescita sostenuta e continua era il requisito fondamentale per la stabilità politica. L’abbandono dell’aumento annuale del prodotto lordo come obiettivo programmatico, annunciato dal primo ministro Li Keqiang dall’assemblea del Congresso del popolo (il parlamento cinese) e il giro di vite su Hong Kong sono entrambi segnali di debolezza economica e politica. La Cina esce dal lockdown con un debito totale del 270 per cento del prodotto lordo, una disoccupazione elevata, l’inaridirsi della manodopera abbondante e a basso prezzo, anche per l’invecchiamento della popolazione, uno scontento sociale che sbocca in scioperi e proteste nella madrepatria.

Pechino sta recuperando, dicono in molti: in fondo ha messo sotto controllo il virus e la fabbrica mondiale ha ripreso a funzionare. Le cose non stanno esattamente così perché la catena produttiva si è spezzata e non verrà ricostruita come se nulla fosse.

Un’altra scuola di pensiero pensa che Wuhan sia la Chernobyl cinese, cioè abbia lo stesso impatto sul regime che ebbe per l’Unione Sovietica l’incidente del 1986 nella centrale nucleare ucraina, spingendo Michail Sergeevicˇ Gorbacˇëv ad accelerare la perestrojka e spingendo su un piano inclinato il comunismo sovietico già minato profondamente. Può darsi. Non c’è dubbio che, stando a quel che i sinologi riescono a capire, il coronavirus ha messo in subbuglio la struttura del potere, facendo emergere le opposizioni finora occulte
allo strapotere di Xi, il nuovo Mao, l’ultimo imperatore, l’uomo che ha voluto seppellire il complesso equilibrio di potere con il quale si è retto il sistema da Deng Xiaoping in poi: il ricambio decennale delle élite al comando, facendo crescere uomini fedeli, ma efficienti, nelle città e nelle amministrazioni regionali. Per molto tempo ha governato la cosiddetta “banda di Shanghai”, i dirigenti di partito che si erano fatti le ossa nella più ricca e aperta città del Paese, insieme ai “principini”, gli eredi dei grandi capi comunisti cresciuti nell’era maoista (come lo stesso Xi Jinping), poi il ricambio è avvenuto, con l’ascesa dello stesso Xi, attraverso le purghe, all’insegna della lotta alla corruzione. Grandi punti interrogativi sorgono sulla tenuta degli equilibri politici. Tuttavia la differenza con l’Unione Sovietica è ancora enorme. L’URSS era alla fame negli anni Ottanta e quasi nulla della sua economia funzionava, ormai la stessa CIA riconosce di aver sopravvalutato la potenza sovietica e lo ha fatto per ragioni politiche, per dare forza alla spallata di Ronald Reagan contro “l’impero del male”. Quanto al PCUS, era ormai marcio al suo interno come riconobbe lo stesso Gorbacˇëv.

Difficile comprendere l’effettiva tenuta del partito-Stato anche perché, a differenza dell’URSS e dello stesso regime di Vladimir Putin, l’economia cinese non è sotto il completo e diretto controllo politico; è sorta una classe media rampante, sono nati imprenditori e capitalisti desiderosi di far valere la loro autonomia, sia pur relativa. Non basterà far mancare il patronage politico per rimettere il genio nella bottiglia. Sta emergendo, anzi, una contraddizione sempre più palese tra la società e il sistema politico-statale in modo molto diverso dalla Russia, dove gli oligarchi sono sostanzialmente dei boiardi alla corte del Cremlino perché la loro ricchezza si basa non sulla produzione di merci, ma sul controllo delle risorse energetiche e minerarie. Non si vedono beni russi validi e competitivi sui mercati mondiali (se escludiamo i kalashnikov). Non c’è nulla di Sdelano v Rossii (Made in Russia) da comprare in un negozio, ed è lo specchio della sua debolezza economica a fronte di una indubbia potenza geopolitica e militare. Per la Cina è vero esattamente il contrario: ha inondato i magazzini, ma è priva di risorse naturali, dipende dalle esportazioni, persino sul piano alimentare (senza la soia sudamericana non potrebbe sfamare la popolazione), e la sua potenza militare è basata su milioni e milioni di baionette, cioè un esercito numeroso, senza dubbio più moderno dopo i grandi investimenti degli ultimi anni, ma ancora tradizionale.

Parlare di Pechino come vincitore della “guerra al virus” è del tutto irrealistico, ma non è fondato neppure descrivere i sistemi autoritari nel loro complesso come trionfatori grazie alla politica della paura. Nella Russia ammaliata dal Piccolo padre le vittime sarebbero superiori alle stime ufficiali addirittura del 70 per cento. Il primo ministro Mikhail Mishustin ha preso il Covid- 19, è stato contagiato lo stesso Dmitry Peskov, l’addetto stampa di Putin; il presidente si è barricato nella sua residenza fuori Mosca lavorando da un ufficio senza finestre, anche se si è fatto vedere insieme a Igor Sechin, l’oligarca suo amico che guida il colosso petrolifero Rosneft. Intanto il crollo dei prezzi degli idrocarburi ha peggiorato la recessione. Doveva essere l’anno in cui Putin avrebbe cambiato la costituzione per poter diventare presidente a vita, anche lui come Xi Jinping, uno zar e un imperatore, invece è rimasto spiazzato e schiacciato.

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