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Middle Corridor

Cosa ne sarà dell’Europa centro-orientale dopo la guerra in Ucraina?

Con la guerra russo-ucraina si apre una nuova fase. I Paesi riemersi nel 1989 dal congelatore sovietico puntano a una ritrovata centralità strategica ed economica. Ma sono anche più esposti a rappresaglie da Mosca. L'intervista di Maurizio Stefanini a Giorgio Cella, docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università del Sacro Cuore, tratta dall’ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine

 

Analista di politica internazionale e docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università del Sacro Cuore, Giorgio Cella è la persona giusta con cui discutere di quale sarà l’effetto della guerra tra Russia e Ucraina in Europa centro-orientale. Nel suo ultimo lavoro, Dalla Rus’ di Kiev a oggi, ha inquadrato il conflitto in corso nel più ampio contesto storico della regione.

Perché è scoppiata la guerra in Ucraina? Perché l’Ucraina è riuscita a resistere? E come andrà a finire?

Le cause di questa crisi affondano le loro radici in una lunga storia, una lunga disputa, una lunga faida che coinvolge imperi, territori, identità, lingue, confessioni religiose, identità culturali, ambizioni di espansione geopolitica. Risalire alle cause dipende quindi dalla volontà di approfondimento: si può cominciare dai tempi dell’Impero Romano e delle grandi migrazioni, dal Medioevo con la Rus’ di Kiev – regno culla delle identità degli slavi orientali poi divenuti nei secoli russi ucraini e bielorussi – o dalla fine della guerra fredda.

Per una spiegazione meno complessa, si potrebbe dunque partire da questa terza opzione per quanto concerne l’eziologia del conflitto. L’Ucraina ha sicuramente sorpreso molti in questa guerra, a partire dai loro sostenitori americani che all’inizio consigliarono a Zelenski di rifugiarsi in Polonia e creare da lì un governo in esilio. L’Ucraina ha potuto contare su un sentimento di unità nazionale e identitario che ha fatto da collante in tutto il Paese, un fattore evidentemente mal calcolato dai russi e dai loro sistemi di intelligence. È chiaro che in seguito il supporto logistico, di intelligence e di armamenti da parte occidentale ha giocato un ruolo fondamentale.

Come andrà a finire è ancora presto per dirlo, oggi siamo in una fase di stallo dove il Donbass sembra per ora sotto il controllo russo, e sembra essere tornato (in un evidente ridimensionamento delle ambizioni e progetti iniziali) al centro degli obbiettivi politico-militari del Cremlino, dopo che i piani per una conquista su più larga scala di altre aree del paese sono stati infranti in corso d’opera. Oggi sono le ricadute esterne del conflitto come la questione energetica le issues principali che scaturiscono dal conflitto e che tengono più banco sui media e nel dibattito politico interno ai Paesi occidentali. Certamente una qualche ricomposizione del conflitto a un certo punto dovrà essere affrontata, sempre che le cose non degenerino.

Come cambia con la nuova guerra fredda dal punto di vista politico e soprattutto economico l’Europa centro-orientale, cioè quella parte di Europa che va da Berlino a San Pietroburgo?

La parte centro-orientale d’Europa, definita non a caso da Rumsfeld ai tempi della controversa guerra in Iraq “the new Europe”, con riflessi di giudizio evidentemente negativi sulla vecchia Europa (ossia Italia, Francia, Germania, al tempo contrari all’intervento americano in Iraq) è da tempo un’area prioritaria per Washington in chiave anti russa, o se vogliamo di pressione anti russa.

Parliamo di paesi ex membri del patto di Varsavia o dell’Urss che hanno sviluppato nel corso del XX secolo, o chi ancora prima sotto l’impero russo, una sorta di diffidenza, se non una ostilità, nei confronti del potere russo. Con la nuova fase di grande instabilità apertasi con la crisi ucraina o, se volete, di una nuova guerra fredda, per questi Paesi si aprono sia rischi che opportunità. Opportunità economiche in quanto il loro ruolo di paesi di passaggio dei corridoi energetici si rende sempre più prezioso e ambito. Lo stesso discorso vale dal punto di vista geostrategico, in quanto è nota la accresciuta valenza all’interno della Nato, e soprattutto agli occhi dello Stato guida della Nato, di paesi come Romania, Polonia, Paesi Baltici, Bulgaria, Macedonia eccetera.

Parallelamente, queste nuove opportunità si legano a un aumentato rischio di entrare in collisione con forme di rappresaglia russe, che siano energetiche, cyber, migratorie o direttamente militari. Quest’ultima opzione tuttavia, per l’evoluzione poco brillante che ha preso la campagna militare russa in Ucraina – Paese non Nato con forze militari ben meno equipaggiate, all’avanguardia e preparate di un Paese membro dell’alleanza – parrebbe sconsigliare per il futuro prossimo scontri militari con uno o più Paesi Nato della nuova Europa. Infine, sempre con un occhio alla storia, ricordiamoci come alleanze in chiave anti russa (sovietica al tempo) furono già costruite sotto la guida del maresciallo polacco Pilsudski, con le dottrine dell’Intermarium e il Prometeismo. Anche qui dunque, declinato a questo quadrante geopolitico, come insegna il Qohelet, nihil sub sole novum.

A proposito: che dire delle definizioni di Europa centrale e orientale? Il cuore dell’area che trattiamo è più quella centrale, cioè Germania, Polonia, Cechia e Slovacchia, Ungheria, ma ci si allarga anche ai Baltici, a quella Scandinavia che si muove dalla neutralità alla Nato, naturalmente all’Ucraina e alla sua prospettiva “europea”. Si può effettivamente definire un’area del genere?

Per quanto mi concerne, utilizzando terminologie il più appropriate possibile, ho sempre usato la definizione di Europa centro-orientale, a un tempo più olistica e precisa, rispetto a Europa dell’Est o Est Europa, ennesimi casi di mala traduzione di terminologie anglosassoni. La definizione di Europa centro-orientale riflette anche, fedelmente, la mappa geografica, che tutti dovremmo sempre guardare, e conoscere. Taluni paesi al di là dell’ex cortina di ferro, con passati particolari e parte di una traiettoria storica tra loro per molti versi condivisa, indipendentemente dall’essere a maggioranza slava o meno – molti lo sono – hanno semplicemente fatto parte a pieno titolo della storia d’Europa così come della cristianità. Capisco che queste tematiche per gran parte della opinione pubblica occidentale siano ormai vetuste e poco importanti considerazioni, sbiaditi ricordi di tempi remoti, ma non è invece così per le genti dell’area centro-orientale europea.

C’è un certo tipo di pensiero geopolitico secondo il quale chi domina l’Ucraina domina il mondo. Quanto c’è di scientifico in questa visione e quanto c’è di paranoico?

Il riferimento riguarda la teoria dell’heartland di Mackinder, tornata per forza di cose molto in voga negli ambienti di studio geopolitici. È chiaro che nella visione mackinderiana il controllo di questa fetta d’Europa, che ancorché allacciata al cuore storico d’Europa si slancia verso le steppe eurasiatiche, risulta fondamentale.

E questa sua centralità è binaria: per la Russia (così come per l’altra vera, unica grande potenza rivale degli Stari Uniti, la Repubblica Popolare Cinese) diviene lo sbocco naturale verso la parte occidentale del continente eurasiatico, che si traduce a sua volta in una aumentata influenza sull’Europa, dall’altra, nella prospettiva euroccidentale, diviene un modo per consolidare la proiezione atlantica fin sotto le grandi pianure dell’Eurasia, dove le antiche vie della seta conducevano verso l’impero celeste. Sebbene di sicura importanza, non si può però considerare tale teoria come ineluttabile o primaria per ogni forma imperiale: la forza e il controllo esercitato su gran parte del globo di un grande impero dinamico come quello britannico, più spiccatamente commerciale e talassocratico, ne è un esempio.

Tutta quell’area che, con gli smottamenti del 1989, era entrata nel mondo del libero mercato, aveva iniziato a crescere economicamente e a integrarsi tra di essa e con il resto dell’Occidente, pur con tutti i limiti legati ai retaggi storici e nazionalistici scongelatisi e riapparsi dopo la lunga glaciazione sovietica. La guerra accelera certi processi, li rallenta o semplicemente li modifica?

Con la guerra in Ucraina non abbiamo sinora visto nessun cambiamento particolare, se non una generale maggiore convinzione ad essere parte del mondo occidentale. Il ricordo del comunismo è ancora molto vivo per molte di queste nazioni. Dall’altro lato, in misura minore, si registra anche qualche apertura e volontà a una revisione e normalizzazione dei rapporti con Mosca, come il caso ungherese ad esempio, quantomeno fin quando rimarrà Orbán al potere. In caso invece del potenziale verificarsi di una crisi profonda interna al grande Stato russo per via delle conseguenze di varia natura derivanti dalla situazione attuale, in quella circostanza potrebbe tornare a emergere qualche tipo di scongelamento identitario, con tutti i risvolti del caso. Tuttavia per ora, ciò non sembra essere uno scenario del futuro prossimo.

Esiste ancora il Gruppo di Visegrad dopo la spaccatura tra la Polonia unita contro Putin e una Ungheria che con Orbán si pone come quinta colonna putiniana?

La risposta infatti è già in parte insita nella domanda. Una delle ripercussioni più immediate e visibili della guerra russo-ucraina sugli equilibri dell’Europa centro-orientale riguarda certamente il V4 e il suo destino di alleanza sui generis. Manifestazione più lampante e tangibile di tale frattura è plasticamente rappresentata dalla visita a Kiev nel marzo scorso, dunque ancora in piena fase di guerra, del premier polacco Morawiecki a Zelenskyj, insieme all’omologo ceco e sloveno, in chiave di solidarietà alla causa ucraina. La volontà ungherese di continuare a strizzare l’occhio al Cremlino nonostante lo stato di guerra in Ucraina apre la strada a un V3: un’alleanza che, sebbene senza Budapest, permetterà a Varsavia di consolidarsi ulteriormente come  potenza politico-militare-economica regionale guida dell’area.

Ci sono segnali di approfondimento della frattura culturale tra Ucraina e Russia per la guerra. I russofoni ucraini smettono di parlare russo, il Patriarcato di Mosca in Ucraina si separa. È una rottura definitiva?

Quando scrissi l’introduzione al mio libro nell’ormai lontano 2015, parlai di un inevitabile modus vivendi da ricercare tra le due nazioni dalle lontane origini comuni. Oggi la situazione dei rapporti in generale tra i due popoli è ai minimi termini, per usare un eufemismo. Le fratture, come ricordato, si declinano e si riverberano in varie dimensioni, compresa quella religiosa (confessionale). Su un futuro di possibile riconciliazione, pesano ancora molte variabili, su tutte l’andamento del conflitto e le modalità di una sua futura, potenziale ricomposizione diplomatica, ma altresì dalla realtà che si plasmerà nei territori ora sotto occupazione russa.

 

È possibile scaricarne gratuitamente la versione digitale in pdf utilizzando questo link: https://www.startmag.it/wp-content/uploads/SM_16_web.pdf.

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