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Corriere della Sera, Repubblica e le guerre di carta sulle guerre vere

Dibattito tra editorialisti di Corriere della Sera e Repubblica sulla guerra. I Graffi di Damato.

Le guerre e persino le tregue che ogni tanto si annunciano e si praticano dividono anche i giornali, fra di loro e al loro interno. Sta accadendo a Repubblica, per esempio, fra le analisi o i “punti” di Stefano Folli, ai quali mancano ormai solo i richiami al “parere diverso” che la buonanima di Eugenio Scalfari metteva sugli articoli di Alberto Ronchey nella stagione della loro collaborazione, e quelli di Massimo Giannini. Che sono maggiormente amplificati per i salotti televisivi dove l’altro non compare. O, se vi approda, ciò avviene in canali che sfuggono almeno al mio telecomando.

Ma più ancora della Repubblica è il Corriere della Sera che sta soffrendo questa confusa congiuntura internazionale, fatta di disordine più che di ordine. Le sue grandi firme, pur col garbo di non citarsi e tanto meno attaccarsi fra di loro, hanno visioni assai diverse di ciò che accade.

Il mio amico Paolo Mieli, per esempio, pizzicò subito e impietosamente Trump in violazione del diritto internazionale con l’annuncio del suo intervento nella guerra di Israele all’Iran, rivelatosi peraltro decisivo per strappare in breve tempo a Netanyahu non solo i ringraziamenti ma anche la rinuncia a proseguire le sue operazioni sino al ventilato, auspicato rovesciamento del regime degli ayatollah.

Subito sotto Mieli, in ordine tipografico e alfabetico, nello stesso giorno si poteva leggere sul Corriere Antonio Polito convinto, in parole povere, che gli Stati Uniti, anche quelli di Trump, non potessero e dovessero sottrarsi all’intervento. Ma convinto pure che il presidente, “altalenante e improvvisato” avesse, come al solito, sbagliato modalità e tempi. Che a volte, si sa, vanificano anche le migliori intenzioni.

Ieri Ernesto Galli della Loggia si è a lungo soffermato ad analizzare il diritto internazionale evocato dall’ex direttore Mieli per arrivare alla conclusione ch’esso sia ormai qualcosa più di effimero che di concreto. Incerto persino negli organismi internazionali preposti alla sua difesa e applicazione: dalle Nazioni Unite, paralizzate insieme dal diritto – anche quello – di veto di cui dispongono i protagonisti del Consiglio di Sicurezza e dalla maggioranza di cui dispongono ormai nell’Assemblea generale i paesi più disinvolti, diciamo così, nella loro condotta interna e internazionale.

“Gli oltre cinquanta Stati islamici sommati a Russia e a Cina e ai Paesi del cosiddetto “Sud globale”, genericamente “antisionisti” e ostili a tutto quanto sappia troppo di Occidente, hanno una prevalenza schiacciante”, ha scritto impietosamente Galli della Loggia chiedendosi poi “che immagine si possa o si debba avere del diritto internazionale se sono questi i criteri di valutazione che ispirano l’Onu”. Criteri per niente ispirati alla “imparzialità”, elemento “costitutivo per antonomasia di ogni diritto e di ogni etica”. Senza il quale lo stesso diritto internazionale può “diventare qualcosa d’altro”. Di incerto e indefinibile.

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