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Brexit

Non solo Brexit, tutte le sfide che assillano May

La Brexit si colloca a 70 anni esatti dalla istituzione della Nato, a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino ed a 10 anni dall’inizio della grande crisi finanziaria di questo inizio di secolo: una intera fase della Storia occidentale sembra ormai alle spalle. L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta

Obtorto collo. Il governo di Theresa May, che a metà dicembre aveva imposto a Westminster il differimento del voto sull’Accordo con la Unione europea relativo alla Brexit a dopo le festività, coltiva come obiettivo strategico quello di votare in un momento così prossimo alla data del prossimo 29 marzo, data ufficiale del recesso dall’Unione ai sensi dell’articolo 50 del Trattato, da rendere impossibile ogni alternativa alla sua approvazione.

Ai Comuni, dove è iniziato il dibattito che si concluderà oggi, martedì 15 gennaio, regna una frenetica incertezza: non c’è ancora nessuna intesa. Non c’è né una maggioranza favorevole all’Accordo proposto dalla May, né tanto meno una convergenza sulla prospettiva di un caotico “no-deal”. Quella che si percepisce, invece, è la volontà di sbarazzarsi definitivamente della ingombrante ed inefficace azione diplomatica svolta finora dalla Premier, bocciando entrambi queste indigeste alternative.

Da una parte, infatti, l’Accordo sarebbe inaccettabile, perché sommerebbe quattro inconvenienti. La Gran Bretagna rimarrebbe legata all’Unione per via di uno stretto rapporto doganale, che non è chiaro se e come potrà essere superato, consentendole di riprendere una propria autonomia in materia di accordi commerciali internazionali; la obbligherebbe a rispettare ancora per non si sa per quanto tempo un complesso molto ampio di regole europee, con il divieto di aiuti di Stato alle imprese e di operare una concorrenza sul piano fiscale, senza partecipare alla elaborazione delle nuove normative; dovrebbe corrispondere una consistente liquidazione per il divorzio; infine, rimane nella incertezza il regime definitivo della frontiera irlandese che deve rimanere libera da controlli fisici. Neppure l’alternativa del “no deal”, accuratamente prospettata come caotica e drammatica dallo stesso Governo, viene considerata praticabile.

Motus in fne velocior. A Westminster, tra martedì e mercoledì della scorsa settimana, sono arrivate due mosse a sorpresa che hanno definitivamente scompigliato la strategia di Theresa May. Nel corso della approvazione del bilancio per il 2019, il governo è stato battuto, per la prima volta dopo 41 anni: un primo emendamento, presentato dai Laburisti e sostenuto da 20 Conservatori tra cui 17 ex-Ministri, impedisce al Tesoro di modificare autonomamente la normativa fiscale in caso di “no-deal”. Una seconda votazione, anch’essa approvata con una ampia fronda di Conservatori, è andata ben oltre: obbliga il Governo, nel caso in cui il prossimo 15 gennaio i Comuni respingano la proposta di Accordo, a riferire entro tre giorni lavorativi circa le sue nuove intenzioni. Niente “no deal”, dunque, ma un Piano B da presentare a Bruxelles. Su questa proposta, i Comuni si esprimeranno entro i successivi sette giorni.

Tertium datur. Ci si sta dunque preparando ad un secondo voto parlamentare sulla Brexit: si punta a riaprire i giochi, coltivando due ipotesi: intrattenere una relazione con la Ue basata sulle regole generali del Wto, ovvero prendere come riferimento il Ceta, il trattato tra Unione europea e Canada che riguarda lo scambio di beni e servizi, con un sistema di reciproco riconoscimento delle rispettive normative, che è già in un regime di provvisoria applicazione.

Invece di rimanere incastrato in una indigeribile alternativa, il Parlamento inglese vuol mettere con le spalle al muro sia il governo di Theresa May sia la Commissione europea. Così facendo, i Conservatori e gli esponenti del Partito Unionista irlandese eviterebbero tante grane: una crisi di governo, e la incomoda prospettiva di un nuovo Premier cireneo che si troverebbe a dover imbastire una nuova soluzione per la Brexit in appena due mesi; il rischio di nuove elezioni politiche, che aprirebbero un conflitto irrimediabile nel Paese, visto che la divisione tra i fautori della Brexit e quelli del Remain attraversa tutti gli schieramenti politici; la tentazione di un nuovo Referendum, che minerebbe le fondamenta del sistema democratico; la compromissione dell’Accordo del Venerdì Santo, che ha sancito la pace in Irlanda tra Ulster ed Eire; la ancor più temibile prospettiva per cui, pur di mantenere ferma la libertà di circolazione tra le due parti dell’Irlanda, si debba giungere ad una frontiera interna tra Ulster e Gran Bretagna.

Diversa è la strategia dei Laburisti: il loro leader, Jeremy Corbin ha già annunciato che, dopo aver respinto la proposta di Accordo, occorre andare subito a nuove elezioni: solo un nuovo Premier avrebbe infatti la indispensabile legittimazione necessaria per riaprire le trattative con Bruxelles.

Naturalmente, c’è anche chi spera che il voto di Westminster sia solo un espediente procedurale; che emerga solo la richiesta alla Unione europea di rinviare il termine del recesso dalla Unione, che scade il 29 marzo. Dopo la tragedia evitata del “no deal”, la Brexit si trasformerebbe finalmente in una farsa: è questo il sogno nel cassetto di tutti i fanatici del Remain.

In cauda venenum. Stiamo arrivando, sicuramente nel modo peggiore, alla fase finale di un processo geopolitico ed istituzionale che cambierà definitivamente il profilo dell’Unione europea. Non si è compreso a tempo che l’intero Occidente è entrato in una fase di lisi irreversibile, di allentamento delle relazioni interne che si erano cementate dopo la Seconda guerra mondiale per via della comune difesa dalle insidie del blocco comunista, egemonizzato dall’Unione Sovietica.

A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, la Nato sembra aver perso la sua identità di alleanza a difesa delle Nazioni libere e democratiche, unite in Europa contro il comune pericolo comunista. Seppure in forme politiche incomparabilmente diverse rispetto ai dissensi che nel corso degli anni erano emersi tra i Paesi aderenti al Patto di Varsavia, prima in Ungheria, poi in Cecoslovacchia ed infine in Polonia, e che furono repressi in modo violento e sanguinoso, non c’è dubbio che ci sono divergenze sempre più profonde nel campo Atlantico: a cominciare dalla contrarietà espressa dalla Francia in ordine all’invasione dell’Irak fino alla recente volontà di creare un esercito europeo, che secondo il Presidente francese Emmanuel Macron dovrebbe considerare addirittura anche gli Usa come potenza ostile, per via del pericolo per la pace rappresentato dal programmato dispiego di missili nucleari nell’Europa dell’Est per difendersi dalla minaccia russa.

La crisi finanziaria in Europa, iniziata già dieci anni fa, e rispetto a cui l’asse franco-tedesco ha imposto la sua ricetta di risanamento mediante il Fiscal Compact, la Banking Union e l’ESM, ha enfatizzato gli squilibri fra i diversi Paesi membri dell’Unione, le incongruenze dell’euro e la incompletezza dell’architettura europea che fino ad allora erano rimaste nascoste.

In un assetto in cui sono ormai prevalentemente le Banche centrali a determinare le dinamiche della ricchezza sui mercati ed i movimenti dei capitali, con i quattro poli principali rappresentati da dollaro, euro, yen e yuan, lo spazio geopolitico per la Gran Bretagna e quello di riferimento per la sterlina sono tutti da riconquistare. D’altronde, lo sganciamento britannico dall’Unione europea, con le relazioni mai amorevoli con la Germania se non fosse per le ascendenze della Casa reale, si colloca in un contesto in cui la relazione sempre più ruvida tra Usa e Cina ha messo in sordina la prospettiva di un secolo aureo nelle relazioni tra i due ex-imperi. Nel frattempo, le tensioni all’interno del quadro politico europeo rappresentano ulteriori elementi di incertezza sistemica per via dell’emergere di tendenze sovraniste.

La Brexit si colloca a 70 anni esatti dalla istituzione della Nato, a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino ed a 10 anni dall’inizio della grande crisi finanziaria di questo inizio di secolo: una intera fase della Storia occidentale sembra ormai alle spalle. Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus. 

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