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Giorgetti

Conte, il Ponte e gli sbuffi democrat

La conferenza stampa di Conte vista e interpretata dal notista politico Francesco Damato

Senza volersi spingere sino allo scenario del vuoto fisico e d’ascolto immaginato sulla prima pagina del Corriere della Sera dal vignettista Emilio Giannelli, i ponti che il presidente del Consiglio ha lanciato un po’ in tutte le direzioni nella conferenza stampa a Palazzo Chigi sono stati troppi – persino sullo stretto di Messina, che è il sogno di Silvio Berlusconi – per poter essere realizzati. E rispondere all’“unità morale” riproposta dal capo dello Stato nel 74.mo compleanno molto particolare della Repubblica, festeggiato senza parate militari ma con un pellegrinaggio di Mattarella nei siti più significativi, diciamo così, dei tempi di coronavirus che stiamo vivendo, fra Codogno e l’ospedale Spallanzani di Roma.

Sono ponti un po’ lanciati nel vuoto di uno scenario politico tanto immobile quanto debole per le divisioni che attraversano la maggioranza, forse più ancora di quelle dell’opposizione di centro destra, raccoltasi solo per strada attorno a quella bandiera a metraggio stesa lungo un bel tratto della via romana del Corso.

Conte non è disposto a concedere niente di pratico, sul piano politico, alla realizzazione effettiva dei suoi ponti. Lui si tiene ben stretto sia il suo secondo governo, senza cambiare un ministro o solo un sottosegretario per quello che si chiama “rimpasto”, sia la sua maggioranza, da non allargare neppure a uno spicchio del centrodestra, non foss’altro per cercare di dividerlo più visibilmente e concretamente di quanto già non sia: tra un Berlusconi che vorrebbe chissà che cosa di nuovo e di diverso, ma non può, e Matteo Salvini e Giorgia Meloni che si contendono la leadership del centrodestra ridiventata scalabile.

La prudenza, o la paura, come preferite, di Conte di perdere quella paletta di capostazione che i suoi amici del Fatto Quotidiano gli hanno messo in mano senza accorgersi del suo aspetto caricaturale, è aumentata con i rumori provenienti questa volta non tanto o non solo dal movimento grillino sempre in travaglio, al minuscolo, quanto dal Pd. Dove il grande consigliere di quasi tutti quelli che si sono avvicendati alla segreteria, Goffredo Bettini, si è lasciato scappare a sorpresa in televisione che Conte rimane bravo, per carità, ma “non basta più”. Magari, servirebbe meglio in Campidoglio per succedere l’anno prossimo all’accidentata Virginia Raggi, pur non essendo quello il colle romano preferito forse dal presidente del Consiglio. Che, a furia di salire al Quirinale per i suoi compiti istituzionali, ne deve avere scoperto il fascino d’altronde irresistibile: ma irresistibile anche per tanti altri, compreso – secondo i retroscena delle ultime settimane – il capo della delegazione del Pd al governo e ministro dei beni culturali e del turismo Dario Franceschini.

In un quadro politico che il presidente del Consiglio vorrebbe immutato è difficile anche interpretare la portata e lo sbocco dell’aiuto che egli ha chiesto alle “singole menti brillanti”, sapendo benissimo che a sentire parole simili a tutti, ma proprio a tutti, magari persino all’interessato, è venuto di pensare all’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Di cui tuttavia si stenta a immaginare il salto come un passeggero ritardatario su uno dei treni che “il capostazione” del Fatto Quotidiano fa partire alzando la paletta.

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