Sotto sotto, ma neppure tanto, penso che Beppe Grillo punti sulla sindrome del parricidio nell’offensiva umana, sarcastica, politica e giudiziaria che sta conducendo contro Giuseppe Conte per rendergli più dura possibile la gestione del MoVimento 5 Stelle. O di come diavolo sarà costretto l’ex presidente del Consiglio a chiamarlo se il fondatore e deposto garante riuscirà nei tribunali a sconfiggerlo anche come avvocato. Che è ora sicuro dall’alto – o dal basso, si vedrà – della sua “precedente carriera”, come lui stesso l’ha chiamata, di potere ridurre allo stato di “temerarie” le vertenze adombrate o minacciate da Grillo.
Ma ancor più che dai fedelissimi che ha conservato sotto le 5 Stelle o persino recuperato, perché ve ne sono che furono da lui espulsi ma ora mostrano simpatia, comprensione, solidarietà e simili, Grillo è consolato da un pubblico completamente nuovo.
Il parricidio, anche quello politico, è sempre a doppio taglio. Riscatta il figlio dai torti che può avere subìto ad opera di un padre troppo autoritario, a dir poco, ma lo espone anche agli inconvenienti della impopolarità perché un padre rimane pur sempre un padre. E non lo si tumula con una festa, per quanto sobria cerchi di renderla il parricida in un empito di carità o di buon gusto.
Ad occhio e croce avverto, leggendo i giornali e sentendo le chiacchiere dei salotti televisivi, che all’esterno del movimento pentastellare Grillo trovi comprensione, se non solidarietà piena, più a destra che a sinistra. Come se quel movimento a guida ilare e imprevedibile, capace di farsi piacere anche uno così lontano e diverso come Mario Draghi, fosse preferito da chi sta per il momento al governo ad un movimento forse ancora più imprevedibile ma per niente ilare, capace di creare maggiori problemi dell’altro.
Ciò che sta accadendo attorno a Grillo e a Conte mi ricorda un po’ – fatte naturalmente tutte le debite differenze – l’esperienza da me vissuta al Giornale dei primi tempi montanelliani quando nel Pci delle allora Botteghe Oscure si scontrarono Enrico Berlinguer e Armando Cossutta: l’uno tentato dal cosiddetto eurocomunismo e l’altro furente per gli “strappi” che il segretario comunista consumava nei rapporti con Mosca.
Già colpito nella sua sensibilità di militante dalla scelta di Berlinguer di considerare la Nato, in una celebre intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, “un ombrello” utile a proteggere anche un Pci autonomo da Mosca, Cossutta esplose letteralmente a quell’”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” annunciata dal segretario del Pci in una tribuna televisiva rispondendo ad una mia domanda sul regime militare appena instaurato in Polonia. Che doveva servire a rendere superfluo un intervento delle truppe sovietiche contro le istanze di liberazione di Varsavia dal giogo moscovita.
Cossutta, combattivo nei suoi 55 anni, improvvisò una manifestazione filosovietica a Perugia. Che Montanelli mi incaricò di seguire affidandomi anche un messaggio personale di simpatia – ripeto, simpatia – per Cossutta. Che evidentemente prefigurava un Pci più duro ideologicamente ma meno preoccupante per il fondatore e direttore del Giornale. Che temeva un Berlinguer capace di avvolgere la Dc nella sua tela, per quanto la fase della cosiddetta solidarietà nazionale dei governi monocolori democristiani appoggiati dal Pci si fosse conclusa.
Cossutta, che avvicinai prima del suo discorso, accolse il messaggio di Montanelli con un sorriso educatissimo accompagnandolo però con un invito al mio direttore a “risparmiarlo”. Io naturalmente riferii e Montanelli rise di cuore accontentandolo di buon grado. Poi con Berlinguer a Milano egli sarebbe andato a cena, rimanendone non dico fulminato ma lusingato dagli apprezzamenti che quel furbacchione volle e seppe esprimere per il suo modo di scrivere e di raccontare le cose. Montanelli scoprì dopo qualche anno – ma io ormai me ne ero andato dal Giornale – anche il piacere o la vanità, come preferite, di frequentare qualche festa dell’Unità, doverosamente da ospite.