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Giorgetti

Conte cerca di evitare il maestralone del Sud affidandosi ai sindaci

Le ultime mosse del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, viste dal notista politico Francesco Damato

No. Contrariamente a quanto avrà pensato l’arbasiniana casalinga di Voghera sentendo annunciare di sabato sera in televisione l’ennesima ma stavolta imprevista conferenza stampa da Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non ha ceduto a vanità o protagonismo. Non ha voluto cioè essere da meno del Papa, che il giorno prima aveva scioccato il mondo sotto minaccia di infezione e di morte benedicendolo da una spettrale piazza vuota e infine bagnata di San Pietro, o del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che subito dopo, sistemandosi i capelli alla svelta, aveva voluto parlare in diretta del coronavirus agli italiani e a certi governanti europei – tedeschi e affini – impegnati ancora a misurare i nostri debiti prima di decidere se allargare la borsa e ad aiutarci davvero, prima che sia “troppo tardi” anche per i loro Paesi, sotto attacco virale pure loro.

Più realisticamente e politicamente Conte è tornato sugli schermi televisivi, affiancato a distanza sanitaria dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, spinto da quello che potremmo chiamare “il vento del Sud”, socialmente più minaccioso e pericoloso di quello soffiato sinora dal Nord Italia. Dove il coronavirus ha fatto più morti che nell’originaria Cina.

A mettere le ali a Conte sono state le notizie sui primi saccheggi meridionali da paura e povertà, gli appelli disperati dei sindaci e dei governatori, il più convinto ed efficace, pur nella sua simpatica teatralità, rimane sicuramente quello della Campania Vincenzo De Luca, e infine le conferme di un ordine pubblico in pericolo giuntegli dal Viminale diretto non da un politico a caccia di voti, come poteva essere sospettato ai suoi tempi recenti il “capitano” leghista Matteo Salvini, ma da una donna di Prefettura arrivata al vertice della sua carriera come Luciana Lamorgese.

Il professore, aggiungendo un altro “dpcm”, acronimo di decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, a quelli già impostigli dal vento del Nord e lamentati da fior di giuristi e costituzionalisti per la scorciatoia in cui si traducono rispetto ad altri provvedimenti che debbono affrontare le Termopoli parlamentari, ha destinato a tutti i Comuni, in anticipo rispetto alla scadenza ordinaria di maggio, 4 miliardi e 300 milioni di euro da investire, praticamente, in soccorso alla povertà e alla rabbia. Se basteranno, con altri 400 milioni azionati diversamente, a fermare o ridurre il vento meridionale della protesta o della rivolta, al netto delle complicazioni che dovessero subentrare per la diffusione del coronavirus in terre dove gli ospedali non sono paragonabili a quelli del Nord, ed hanno anche l’inconveniente di essere devastati da folle inferocite di parenti e amici di chi vi muore dentro, lo vedremo presto.

Temo che potremmo aspettare anche meno dei quattordici giorni accordati o presisi dalla cancelliera tedesca Angela Merkel per decidere se usare la guerra del coronavirus per costruire davvero l’Europa nello spirito solidale e davvero comunitario concepito dai suoi predecessori o per affondarla con quel nome un po’ troppo ottimista datole chiamandola Unione.

Conte ha colto l’occasione fornitagli dalla spinta del vento del Sud per assicurare -in polemica con una sortita a sorpresa della presidente tedesca della Commissione di Bruxelles Ursula Von der Layen, poi ridimensionata, e in risposta alle poche domande di giornalisti questa volta ammesse in teleconferenza- di non voler “passare alla storia” per uno che si è piegato al vento stavolta del Nord d’Europa, non d’Italia. Ma fra il dire e il fare, si sa, di solito c’è di mezzo il mare.

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