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Nato

Come va davvero l’economia in Ucraina (e qual è il ruolo della Germania a Kiev)

L'approfondimento di Pierluigi Mennitti

Senza troppi giri di parole, lo stato dell’economia ucraina lo si misura attraversando il confine di Korczowa-Krakovez dalla Polonia, che è poi il confine con l’Unione Europea. Si possono anche chiudere gli occhi: il momento del passaggio si percepisce dalla durezza con cui gli ammortizzatori del mezzo impattano sulla prima buca. Poi sulla seconda, sulla terza e così via. Inizia una sorta di gimcana che mette a dura prova nervi e stomaco e che durerà fino alle porte di Lviv, il primo grande centro che si incontra arrivando da ovest. Un’esperienza che vale più di qualsiasi statistica economica.

Allo scoccare del quinto anniversario della rivoluzione della Maidan, la ripresa dello scontro con la Russia nel mare d’Azov riaccende i timori per un’economia che in un lustro si è mossa a rilento. Una ripresa stentata, intorpidita da riforme mancate, dall’acuirsi di vizi endemici, dalla debolezza del sistema creditizio interno e dalla timidezza degli investimenti esteri. A pochi mesi dalle elezioni presidenziali del 31 marzo, il bilancio del presidente Petro Poroshenko, cui erano stati affidati i destini post-rivoluzionari, è decretato da quel 78% di ucraini che in un recente sondaggio hanno giudicato negativamente l’evoluzione politico-economica del paese. Nel 2012 erano il 52%.

A quei tempi l’Ucraina appariva un paese in felice espansione. A Kiev e nelle altre grandi città era in corso il boom edilizio, sull’onda degli investimenti arrivati per l’organizzazione degli Europei di calcio con la Polonia: impalcature di palazzi in costruzione ovunque, in centro e in periferia, una corsa al mattone che accompagnava l’ascesa un po’ equivoca di una classe media edonista e consumista. Nel 2013 il collasso, la crisi, quindi la rivolta suscitata da un’ansia di legalità e di lotta alla corruzione e innescata dal rifiuto dell’allora presidente filo-russo Victor Yanukovich di ratificare l’accordo di associazione con l’Ue. Barricate sulla Maidan, battaglie sanguinose nel resto del paese, perdita della Crimea, quindi la guerra senza fine in Donbass con le milizie separatiste che è costata finora oltre 10 mila morti. E il crollo di un quinto dell’economia nazionale.

Nel 2015 il prodotto interno lordo è crollato del 10%, per risalire del 2,4 nel 2016 e del 2,5 nel 2017. Un aumento che avrebbe dovuto consolidarsi quest’anno con un +3,5% e nel 2019 con il 2,7, ma le stime restano appese a grandi fattori di incertezza: il voto, le riforme bloccate e ora il riaccendersi dello scontro con Mosca.

Lo slogan riproposto dal premier Volodimir Groisman ancora nella sua visita di ieri a Berlino per il forum economico tedesco-ucraino (“Non stiamo facendo delle semplici riforme, stiamo costruendo un nuovo Stato”) non sembra più convincere nessuno. Non gli investitori esteri, quelli su cui si fa più affidamento data la stretta creditizia interna, i quali lamentano la persistenza di un sistema di corruzione capillare e temono che il voto riporti al potere Julia Tymoshenko, oggi in testa a tutti i sondaggi. Non che Poroshenko dia molte garanzie in più ma, si sa, in tempi incerti gli imprenditori preferiscono il male che già si conosce rispetto a quello che potrebbe arrivare. La ex pasionaria di troppe battaglie tradite oggi ha scoperto le virtù del populismo demagogico e ha annunciato che in caso di vittoria dimezzerà il prezzo del gas. Da parte sua il Fondo monetario internazionale, senza il cui supporto l’Ucraina sarebbe affondata, ha già fatto capire che potrebbe saltare il pacchetto di 17 miliardi di dollari d’aiuti.

La Tymoshenko ha però campo facile di fronte alla povertà diffusasi in questi anni, quando la miseria pubblica che ha un po’ sempre caratterizzato le casse statali ucraine ha contagiato i portafogli privati. Secondo la Banca mondiale il reddito pro capite è di 2.553 dollari, il più basso d’Europa, mentre il reddito medio mensile di un lavoratore ucraino è di 260 dollari. Il 40% se ne va in spese abitative, casa, elettricità, acqua e gas. Resta poco per arrivare alla fine del mese. Per questo gli ucraini emigrano: un milione e mezzo lavora stabilmente nei paesi vicini, in Germania ma soprattutto in Polonia. Il pendolarismo di confine è un fenomeno in crescita, le aziende che si azzardano a investire in Ucraina faticano a trovare manodopera: nell’Europa di mezzo si è creato un effetto domino che, alla fine, depaupera chi sta più a est.

“Con questo ritmo di crescita ci vorranno ancora cinque anni per ritornare ai livelli del 2013”, ha detto all’Handelsblatt il presidente della Camera di commercio tedesco-ucraina a Kiev, Alexander Markus, uno neppure troppo pessimista sul futuro del paese: “L’economia non stava andando male, poi i timori per il voto hanno frenato gli investimenti, specie quelli dall’estero”, ha detto. E ora le nuove tensioni con la Russia. Gli investimenti interni sono pressoché irrilevanti dal momento che il tasso di interesse è del 18% e in pochi si azzardano a chiedere prestiti. L’inflazione è al 10%, la grivna continua a svalutarsi: nel 2012 bastavano 10 grivne per avere un euro, oggi ne servono 32.

Tuttavia qualcosa si è mosso. Soprattutto grazie ai tedeschi. Sono più di 2000 le aziende arrivate dalla Germania e danno lavoro a circa 600 mila addetti. Sono state attirate soprattutto dal basso costo del lavoro a fronte di una manodopera (quando si trova) qualificata e di buon livello. Si tratta in gran parte di imprenditori che inseguono il basso costo del lavoro e che hanno portato qui fabbriche che prima erano in Polonia, Romania, Slovacchia. L’interscambio commerciale fra Berlino e Kiev è salito a 6,6 miliardi di euro, tendenza in crescita. A ovest, nella regione galiziana attorno a Lviv e Ivano-Frankivsk la Leoni, azienda leader nella produzione di reti via cavo per auto con sede a Norimberga e stabilimenti in tutto il mondo, ha raddoppiato la sua presenza investendo 16 milioni di euro in un secondo stabilimento per esaudire nuove commesse della Bmw. Nel dopo Maidan sono arrivati anche marchi come Ikea, Dekatlon, Metro. La liberalizzazione dei visti per l’Ue ha richiamato le compagnie aeree low cost, da Ryanair a Wizz Air, che hanno ramificato la rete di collegamenti fra gli aeroporti ucraini e quelli dell’Unione.

Tutto questo potenziale è noto alla Germania, che si è ritagliata un ruolo di tutore verso Kiev dentro il processo innescato dalla rivoluzione e di mediatore con Mosca da quando è scoppiato il conflitto bellico. Ma per liberarlo ci sarebbe bisogno di riforme strutturali, in economia, nell’amministrazione pubblica, nella giustizia. Poroshenko le aveva promesse ma non le ha fatte e ora anche a Berlino serpeggia il sospetto che il presidente abbia riacceso la disputa con Mosca per scopi elettorali.

La diplomazia tedesca è stata co-artefice degli accordi di Minsk, la road map verso la pacificazione che in realtà ha avuto l’unico merito di raffreddare gli scontri a un livello di bassa identità, senza innescare un processo virtuoso. Quando c’è stato l’incidente nello stretto di Kerch, Berlino ha provato a mettersi in mezzo riesumando il formato della Normandia con la Francia, ma Putin ha fatto capire di non avere più voglia di avere troppi mediatori tra i piedi. Nessuno ha potuto ascoltare il contenuto della telefonata notturna Putin-Merkel ma, al di là delle dichiarazioni diplomatiche, il modo con cui la Germania ha ripreso a tessere la sua tela diplomatica con Kiev lascia intendere quanto sia scivoloso il terreno su cui si sta muovendo Angela Merkel. Putin le ha chiesto di dare una strigliata a Poroshenko, ieri a Berlino si è presentato il premier Groisman per il forum economico tedesco-ucraino.

De-escalation è il termine sulla bocca di tutti. Del governo tedesco innanzitutto, timoroso che nuove fiammate a oriente possano rimettere in discussione il raddoppio del gasdotto Nord Stream 2, già contestato da americani e alleati est-europei. È probabile che di questo si sia parlato nella telefonata Merkel-Putin, ma forse non ce n’era neppure bisogno. In una rassegna stampa tedesca dominata da invocazioni al dialogo fra Ucraina e Russia, il vignettista Heiko Sakurai ha centrato il punto (o almeno uno dei punti) sulla Berliner Zeitung: una cancelliera parla al telefono con Poroshenko sovrastata da un grande tubo del Nord Stream 2. Il messaggio consegnato dal governo tedesco a Kiev è di abbassare i toni altrimenti si rischia di pregiudicare la già fragile ripresa economica. Ma la Germania deve anche salvaguardare il suo ruolo di tutore: è una parte importante dell’eredità politica della cancelliera, che sulla ruota di Kiev ha giocato carte non sempre coincidenti (l’appoggio assicurato per lungo tempo a Julia Tymoshenko, ad esempio, ora rischia di trasformarsi in un boomerang). D’altronde il panorama non offre molti punti fermi e personalità spendibili, in un paese che consuma velocemente volti politici ma resta saldamente nelle mani degli oligarchi che tirano i fili dietro le quinte.

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