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Muro Di Berlino

Come sta l’economia della Germania dell’Est post Muro? Fatti e polemiche

Che cosa si dice in Germania sulle politiche economiche applicate nell’ex Ddr.

 

Il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino è quello del revisionismo, dominato da un ripensamento critico degli obiettivi perseguiti e raggiunti. Il bilancio che se ne offre piega verso toni malinconici e pessimistici, assecondando gli umori del presente. Il sottile brivido del fallimento percorre uno dopo l’altro i convegni che si susseguono un po’ in tutta Europa e, naturalmente, in particolare a Berlino. Nella città che con la sua divisione fu il simbolo della Guerra fredda e poi della sua fine, anche le celebrazioni ufficiali si svolgono in tono minore rispetto agli ultimi due anniversari del 2009 e 2014. Non c’è l’evento unico spettacolare: né i tasselli di domino del ventennale, fatti crollare all’ora esatta della conferenza di Günter Schabowski, né i lampioni illuminati del venticinquennale, disposti lungo il vecchio percorso del muro. Quest’anno tutto è diluito in una miriade di piccole manifestazioni, disseminate per una settimana in sette luoghi simbolici della città, mentre il 9 novembre ci sarà una festa popolare sotto la Porta di Brandeburgo: come nelle public view ai mondiali di calcio o alla festa nazionale del 3 ottobre.

Non c’è molta voglia di celebrare successi, piuttosto di analizzare quel che è andato storto. Storici ed economisti fanno a gara per superarsi nelle critiche ai processi che hanno guidato la riunificazione tedesca e la transizione dei paesi del blocco comunista dall’economia di piano a quella di mercato, dagli Stati totalitari monopartitici ai sistemi democratici pluralisti. Alla fine dell’imbuto, il permanente ritardo dell’economia tedesca orientale rispetto ai Länder dell’Ovest, lo scivolamento verso forme di democratura di Ungheria e Polonia, l’esplosione dei populismi e dei sovranismi un po’ dovunque. Di fronte a fenomeni che contraddicono le speranze nel mondo prospero e libero che si erano accese con il crollo del muro e dei regimi comunisti, cresce la schiera di chi individua la radice dei mali di oggi nelle scelte politiche ed economiche dei primi anni Novanta.

Philipp Ther, storico sociale all’Università di Vienna, è uno dei critici più agguerriti. Quattro anni fa aveva già fatto i conti con gli shock neoliberisti adottati per accelerare la transizione dalle economie di piano a quelle di mercato e oggi torna alla carica allungando lo sguardo anche all’ultimo decennio, in cui le crisi finanziarie e dei debiti sovrani hanno alimentato l’ascesa dei populismi. Intervenendo a un convegno della Deutsche Gesellschaft, Ther ha sostenuto che le direttive del Washington Consensus elaborate a fine anni Ottanta per affrontare le crisi economiche nei paesi dell’America Latina, vennero riprese di sana pianta non solo in Polonia ma soprattutto nella Ddr. È lì, a suo avviso, che le terapie di disciplina fiscale e robuste privatizzazioni misero in realtà in ginocchio quel che restava della struttura industriale della Ddr che si avviava a essere inglobata nella Repubblica federale. In nome del liberismo di moda, è la tesi di Ther, Bonn ha imposto le sue leggi e le sue regole senza alcun riguardo per le particolarità dell’economia da cui la Germania Est fuoriusciva, privilegiando gli interessi delle aziende e delle banche dell’Ovest, dilapidando un patrimonio industriale che poteva essere meglio gestito e operando una macelleria sociale che ha prodotto disoccupazione di massa ed emigrazione delle forze migliori. Sul banco degli imputati la Treuhandanstalt, l’agenzia istituita dal governo di Bonn per gestire la privatizzazione delle imprese dell’Est, il cui bilancio è giudicato dal professore viennese fra i peggiori della storia economica recente.

Non sono argomentazioni nuove: critiche alle modalità della riunificazione tedesca ci sono sempre state, tra i politici e soprattutto fra gli studiosi, così come attacchi all’operato della Treuhandanstalt già negli anni del suo operato, dal 1991 al 1994 e ancora dopo, in sede di primi bilanci. Sono rintracciabili anche in italiano, nel libro di Vladimiro Giacché “Anschluss, l’annessione”, datato 2013 e appena riproposto in edizione aggiornata. Ma erano sempre rimaste critiche da outsider, marginalizzate dalla convinzione maggioritaria che le scelte compiute, seppur dolorose, fossero inevitabili. Oggi sono divenute il nucleo centrale delle riflessioni in corso.

In questo trentennale fa invece impressione ritrovare sulla difensiva i sostenitori della cura shock, tanto in Germania, dove pure i risultati sul riequilibrio del livello di benessere fra Est e Ovest possono essere insufficienti, quanto negli altri paesi dell’Europa centro-orientale: finanche nella Polonia dell’ininterrotta crescita economica. Qui (come in Ungheria e in Repubblica Ceca) pesa l’affermazione del populismo di destra, ritenuto figlio di crescite distorte e squilibrate. In mancanza di una sinistra, che per scrollarsi di dosso qualsiasi ombra di marxismo abbracciò acriticamente le teorie neoliberiste, la reazione a una rincorsa affannosa al modello occidentale viene intercettata dalle destre radicali. L’atto di accusa di Ther, un professore di area liberal, è per i leader liberal degli anni Novanta, Clinton, Blair più tardi Schröder, che non hanno abiurato strategie draconiane e anzi se ne sono fatti principali interpreti.

A difendere le ragioni delle politiche di riforme e privatizzazioni dopo il crollo delle economie di Stato è intervenuto Karl-Heinz Paqué, economista liberale nato in Germania Ovest e dal 2002 al 2006 ministro delle Finanze del Land orientale della Sassonia-Anhalt per il partito liberale Fdp. È un gioco troppo facile quello di giudicare con il senno di poi politiche nate in un determinato periodo storico, ha detto l’economista, tanto più che la memoria tende a dimenticare quali fossero le condizioni in cui si trovava la Ddr, che se non fossero state tanto gravi non sarebbe caduta. Tutti i paesi fuoriusciti dal socialismo si trovavano di fronte alle medesime sfide: superare inefficienze di sistema, rendere stabili e convertibili le proprie monete, introdurre il capitale e gli investimenti privati, sviluppare prodotti competitivi: “Nella Ddr si producevano buoni prodotti ma nessuno aveva un suo mercato”, spiega Paqué, “inoltre dovevano avere un contenuto innovativo tale da giustificare salari sufficienti a garantire un adeguato livello di benessere per i lavoratori”. L’adozione della moneta unica, a un tasso di conversione tra marco dell’est e marco dell’ovest di 1 a 1 per le partite correnti e di 2 a 1 per patrimoni e debiti, fu necessaria per contenere la fuga a ovest dei cittadini tedesco-orientali. Senza il cambio 1 a 1 i salari dell’est sarebbero rimasti un quarto o un quinto più bassi che all’ovest e, diversamente dai cittadini degli altri paesi dell’est, quelli della Ddr potevano ormai trasferirsi nella Germania Ovest. Se ne andarono in tanti, se ne sarebbero andati ancora di più.

Anche il giudizio sulla Treuhandanstalt è per Paqué più sfumato. Fu il tentativo di vendere le imprese della Ddr a privati che avevano dei progetti e, nonostante tutti i problemi di cui discutiamo oggi, fu in realtà l’unica strada in grado di stabilizzare il sistema. “Il Washington Consensus non era un programma neoliberale ma realista”, chiosa l’economista oggi alla guida della fondazione Friedrich Naumann, vicina all’Fdp. Quanto al populismo, arduo attribuirlo a come si è sviluppata la riunificazione tedesca o la transizione dei paesi est-europei: il problema riguarda in egual misura tanti paesi dell’Europa occidentale dalla più solida tradizione democratica, e gli stessi Stati Uniti.

Anche gli istituti di ricerca economica hanno approfittato del trentesimo anniversario per sfornare analisi e prospettive sulle regioni tedesco-orientali.

Questa settimana il Diw di Berlino (Deutsche Institut für Wirtschaftsforschung) ha pubblicato il suo rapporto sul tema. Il bilancio del trentennio trascorso è in chiaro scuro. La produttività delle regioni dell’est rimane in media il 20% più bassa di quella dell’ovest, mentre la disoccupazione è scesa da livelli superiori al 18% di metà anni Duemila al 6,5% attuale. Ma in questo dato, suggeriscono gli esperti del Diw, si nasconde anche il fenomeno dello spopolamento che ha interessato nei decenni precedenti l’est tedesco. E la demografia è la vera bomba sulla quale siede il futuro di queste regioni. Per Kristina van Deuverden, la ricercatrice che si è occupata

Per il Diw le debolezze mostrate in questi primi trent’anni di riunificazione sono destinate a permanere almeno per i prossimi trenta. La forza economica e finanziaria dell’est resta di gran lunga inferiore a quella dell’ovest e lo squilibrio è destinato a perpetuarsi: i redditi dovrebbero anzi ulteriormente divaricarsi, a favore dell’ovest. Ci sono luci per lo sviluppo delle aree urbane, già oggi città come Lipsia, Jena, Halle, Dresda, Erfurt possono vantare risultati incoraggianti, per non contare il potenziale di attrazione che ha al centro dell’ex Ddr una metropoli come Berlino. Ma se la divaricazione fra città e campagna assume nella Germania intera una dimensione superiore addirittura a quella fra est e ovest, le regioni orientali restano penalizzate dalla predominanza delle aree rurali. Solo una compensazione fra città e campagna potrebbe permettere di recuperare una parte dei ritardi di produttività dell’est nei confronti dell’ovest.

Su un punto sono però oggi tutti d’accordo, storici, economisti e ricercatori: le aspettative trent’anni fa erano enormi, probabilmente eccessive. Sarebbe stato meglio che Helmut Kohl avesse avvertito che i famosi paesaggi fioriti non sarebbero nati d’incanto da soli.

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