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Javier Milei

Coronavirus, come si dividono Brasile, Messico, Ecuador e Colombia

Più che in Europa, di fronte alla sfida mortale del Coronavirus l'America Latina si è frantumata in scelte che hanno opposto uno all'altro i 20 Paesi che dovrebbero assimilarla. L'approfondimento di Livio Zanotti, autore del “ildiavolononmuoremai.it”

C’è chi vede gli sconvolgimenti scatenati dal coronavirus come una rivoluzione e chi vi osserva invece i movimenti del terremoto. Certamente questa pandemia che ci assedia fa barcollare vistosamente molte convenzioni. Cominciando dalla tutt’altro che assoluta certezza dei numeri come misura oggettiva d’ogni cosa. Vista dall’America Latina ricorda poi non solo il carattere approssimativo delle funeste dimensioni raggiunte dalla Covid-19 in questa parte del mondo così come nelle altre. Bensì anche limiti e contraddizioni di un nome (peraltro scelto non dai diretti interessati, bensì dall’eurocentrismo del vecchio mondo e segnatamente dall’impero britannico), che da solo vuol riassumere la realtà di 20 Paesi distribuiti lungo due emisferi, i cui estremi opposti distano tra loro come la Scandinavia dal Sud Africa.

La somma ufficiale dei contagiati nei 20 paesi latinoamericani è al momento ben oltre i 60mila, circa 2600 quella dei morti. Ma come sappiamo, sono numeri che ancora per settimane appaiono destinati a crescere con il correre dei minuti. E comunque vengono contabilizzati nei vari paesi con criteri non del tutto omogenei e in molti casi sostanzialmente diversi, pertanto difficili da comparare se non molto (anche troppo) grosso modo. Ben più significativa è invece la comparazione dei comportamenti seguiti da ciascun governo per difendere la salute dei cittadini, dei criteri che li hanno orientati e dei risultati che ne sono conseguiti. È un caso (niente affatto unico) in cui politica e sociologia spiegano più e meglio dell’aritmetica; nel quale volontà e razionalità non sempre coincidono. Ma tutte si confrontano con le culture prevalenti nelle opinioni pubbliche nazionali e con i sentimenti popolari.

Sebbene per il potere che esercita nel mondo e specialmente nel continente americano la sua interazione risulti sempre molto rilevante, al fine di semplificare il discorso lasciamo gli Stati Uniti fuori da queste considerazioni. Così che il caso limite, anche per le eccentricità che ne hanno caratterizzato il governo, appare senz’altro essere il Brasile, il cui gigantismo lo rende ancor più esemplare. Con 220 milioni di abitanti e il PIL più ricco del subcontinente (il decimo del mondo), allo scadere di ieri, lunedì 13, denuncia che la pandemia ha contagiato 23.658 persone e ne ha uccise mille332. Dal punto di vista statistico non costituisce un bilancio abnorme, pur nell’immaginabile parzialità e provvisorietà dei dati. Lo scandalo sta nel fatto che il presidente Jair Bolsonaro si opposto a misure di quarantena con un negazionismo della realtà tanto irragionevole da spaccare la sua stessa maggioranza di governo e dar luogo a voci d’impeachment.

I grandi mezzi d’informazione che ne hanno reso possibile l’ascesa al Palazo do Planalto soltanto 15 mesi addietro, si domandano adesso senza giri di parole se il capo dello Stato sia del tutto presente a se stesso. Il suo vice, il generale in pensione Hamilton Mourao, già intervenuto per chiedere che il maggiore dei figli di Bolsonaro non si serva dell’immunità di cui gode come parlamentare per sottrarsi alla giustizia che l’accusa di gravi atti di corruzione, governatori suoi alleati politici e ministri in carica lo hanno invitato pubblicamente a moderare l’esibizionismo. Ma il presidente continua a non perdere occasione per avvicinare, abbracciare e farsi fotografare con chiunque per la strada, nei supermercati, nelle cento occasioni che gli si presentano ogni giorno per irridere al rischio di contagio, con il medesimo plateale fervore con cui esercita la sua fede nella chiesa pentecostalista di cui è anche ministro.

Non è certo merito suo se il Brasile si è risparmiato il macabro spettacolo dei morti di Covid-19 deposti nei feretri sui marciapiedi quando non gettati sulla strada, come reti televisive, giornali e socialmedia di mezzo mondo hanno mostrato che è accaduto a Guayaquil, nell’Equador del suo alleato e protetto Lenin Moreno. In Messico, il presidente Lopez Obrador si era incamminato su un cammino analogo, alternando una sconsiderata onnipotenza nazionalista a un orgoglioso fatalismo mistico. Si è fermato in tempo (si dice grazie alle ferme insistenze della moglie): meglio tardi che mai, ma il tempo perduto è perduto. Al polo opposto c’è l’Argentina, in cui il presidente Alberto Fernandez, accompagnato da una parte dell’opposizione, è stato tanto pronto quanto risoluto a portare il Paese in una rigorosa clausura che ha ridotto al minimo i danni umani (meno di 3mila infettati e 98 morti).

Cile, Perù, Colombia gran parte dei paesi centramericani e i territori minori stanno nel mezzo, tanto come capacità di prevenzione quanto per i risultati. In Venezuela, da 12 giorni in una quarantena che esclude soltanto i settori alimentare e della sanità, quest’ultimo in grave crisi da anni, secondo il governo gli infettati sarebbero 189 e il virus avrebbe provocato un solo morto. Sono però dati ritenuti poco affidabili. Sebbene l’opposizione non ne abbia diffusi di diversi. Di fronte alla sfida della pandemia più perniciosa, affinità culturali e linguistiche (spagnolo e portoghese), similitudine dei sistemi istituzionali, continuità geografica, aspirazioni storiche (la Patria Grande), non hanno impedito una frantumazione trasversale dell’America Latina, determinata essenzialmente da scelte politiche opposte tra proteggere più l’economia o la salute dei cittadini.

Livio Zanotti

“ildiavolononmuoremai.it”

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