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Piano Ripresa

Come l’Italia s’arrabatta per spendere i fondi europei

L'approfondimento di Enrico Martial

Si avvicina la fine dell’anno insieme al cosiddetto “disimpegno automatico”, cioè al procedimento con cui l’Italia dovrebbe restituire la parte dei fondi europei che non sono stati spesi entro i tre anni successivi al loro impegno finanziario.

Di quanti soldi parliamo

Sui 646 miliardi di euro di fondi strutturali per l’intera Europa (di cui 460,4 miliardi di fondi europei), l’Italia occupa il secondo posto dopo la Polonia con una spesa totale prevista di quasi 76 miliardi (75,950 di cui 44,650 miliardi di fondi europei). Pur considerando che sempre di tasse si tratta, parliamo di spese per investimento, nell’arco formalmente di sette anni (2014-2020) ma in realtà concentrate proprio tra il 2018 e il 2020, per un potenziale di circa 18 miliardi all’anno su quattro anni, per gran parte nel sud del Paese. Per darne una misura, dei 76 miliardi per l’Italia, la Sicilia ha 7,5 miliardi, il Lazio quasi 2,7 miliardi, il Piemonte 2,8.

La spesa avviene per programmi, simili in tutta Europa: per le infrastrutture, la formazione, lo sviluppo rurale, svolti prevalentemente su base regionale e a volte statale. La Commissione europea delega quasi tutto: partecipa alle riunioni di sorveglianza ed effettua i pagamenti per avanzamenti, mentre l’attuazione è nella piena responsabilità delle Regioni e dello Stato.

L’allarme di giugno 2018

Al 31 giugno 2018 il monitoraggio nazionale dava un ritardo di spesa con rischio di disimpegno: i 2,4 miliardi di euro certificati corrispondevano soltanto al 53% dell’obiettivo, e mancavano quindi all’appello 2,12 miliardi in 18 dei 51 programmi italiani. Si trattava di un ritorno al passato, perché il mantra dell’Italia in ritardo sulla spesa era stato superato nei settenni precedenti. Spendere un paio di miliardi in cinque o sei mesi pareva inoltre difficile in una macchina complessa in cui si sommano procedure europee e burocrazia nazionale.

Le soluzioni

Poiché il cofinanziamento statale si trovava sopra la soglia minima prevista dall’Unione in diversi programmi, l’Agenzia per la Coesione ha convinto alcune Regioni e Ministeri a spostare 966 milioni di euro di fondi nazionali su un programma-parcheggio, il POC “programma operativo complementare”. Per vederli persi a Bruxelles, tre regioni – Sicilia, Basilicata e Molise – l’Agenzia per la coesione e il Ministero dell’istruzione con due programmi ciascuno, il Ministero del Lavoro con il programma “Inclusione” hanno accettato di depositarli con qualche rischio. Infatti il POC, come programma-parcheggio, può essere utilizzato dallo Stato per prelievi di risorse che dovessero mancare da altre parti, come fa temere questa fase di spread e di politiche gialloverdi da attuare.

I programmi in ritardo stanno comunque tentando di accelerare la spesa per il restante 1,2 miliardi. Tolta la Sicilia, che probabilmente qualcosa dovrà restituire, il tentativo è in corso. La Rete nazionale di sviluppo rurale il 13 novembre scorso dava notizia di progressi nella spesa “rurale” al 31 ottobre: per esempio Friuli e Campania avevano sostanzialmente raggiunto l’obiettivo, e si notavano solo alcuni ritardi sparsi, per esempio in Liguria e Abruzzo, per un totale nazionale di circa 60 milioni sui 245 che erano a rischio al 31 giugno. Lo scenario di fine anno quindi non è dappertutto drammatico.

I dati aggiornati

Al 29 novembre 2018, l’Italia ha speso 10,289 miliardi di euro, pari al 14% dei 76 miliardi totali: siamo al quart’ultimo posto davanti a Croazia (13%), Spagna (12%), Malta (11%). Al primo posto c’è la Finlandia, quasi con il 50%, mentre Germania e Francia hanno speso ognuna il 26% della loro dotazione.
D’altra parte, se il livello di utilizzo dei fondi europei continua a essere una cartina di tornasole dell’efficienza del Sistema-Paese – come ricordava Giuseppe Chiellino sul Sole24ore del 12 novembre – è pur vero che i ragionamenti sulla qualità della spesa sono assai rari e certo non entrano nel dibattito.
Sul tema vanno appunto ricordati, tra l’altro, la continuità degli stessi beneficiari, la limitata durata temporale degli effetti di vari investimenti “immateriali”e di qualcuno “materiale”, la fuga di soggetti interessati dai fondi per la formazione per la loro farraginosità e rischio, la durata dei procedimenti mentre cambiano le ragioni che hanno originato i progetti, l’elitismo tecnocratico che limita l’accesso ai fondi, lo scarso o assente effetto sul Pil di alcune Regioni del sud, la bassa consapevolezza politica sulla relazione tra le priorità dei programmi europei e gli indirizzi nazionali o regionali.

Il fronte della spesa è comunque interessante perché alcuni programmi che segnano il passo sono proprio quelli a cui è affidato il miglioramento della programmazione. Dai dati del sito della Commissione europea che li tiene aggiornati, il programma Governance, gestito direttamente dall’Agenzia per la Coesione territoriale, ha speso al 29 novembre 2018 solo 5,8 milioni, cioè meno dell’1% dei 780 milioni assegnati. E dire che l’Agenzia è nata nel 2013 proprio per consigliare regioni e ministeri nella celere e buona attuazione dei programmi europei.

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