Erano nati per guidare la lotta contro la casta. Per aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Per punire i vecchi, eliminando i vitalizi; tagliando le pensioni più alte, complice una Corte Costituzionale impaurita e poco rispettosa delle sue precedenti sentenze. Per punire quelle generazioni che comunque avevano preso un Paese, come l’Italia, distrutto dalla guerra e condotto per mano tra i Grandi della Terra. Quinta potenza industriale, da un quasi eterno passato contadino. Anzi addirittura quarta seppure per un brevissimo periodo, dopo aver superato, con grande rammarico degli interessati, il prodotto lordo inglese. 1987: Pil italiano 814.158 milioni di $, Pil della Gran Bretagna, 813.147.
Certo, non tutto era andato bene. Specie dopo l’intervento di “mani pulite” e la completa distruzione del vecchio gruppo dirigente (salvo post-comunisti e post-fascisti) molto di quello smalto si era ossidato. La voglia di cambiamento era divenuta più palpabile. Il pomo dall’albero maturo: pronto per essere raccolto. Ed a Beppe Grillo, con le sue grandi capacità istrioniche, ed a Gianroberto Casaleggio, il visionario della civiltà delle macchine, era bastato allungare la mano, per far definitivamente uscire di scena prima Mario Monti, poi battere quei leader del PD (Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni) che ne avevano garantito la successione.
Vittoria sconvolgente quella del 2018. Per i 5 stelle il pieno dei voti: 32,7 alla Camera e 32,2 al Senato. L’inizio del periodo giacobino. Con l’”avvocato del popolo” che trasforma Palazzo Chigi in uno studio notarile. Poi la minaccia di ricorrere all’impeachment contro Sergio Mattarella, colpevole di non aver accettato Paolo Savona al Ministero dell’economia. Incontro con i gilet gialli di Luigi Di Maio ed Alessandro Di Battista. Proteste francesi che richiamano a Parigi l’ambasciatore. La prima legge finanziaria e la chiassata sul balcone della Presidenza del consiglio. Si inneggia alla fine della povertà, grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza. Mentre la Lega, junior partner del Governo, si limita ad osservare.
Finirà con il Papeete di Milano Marittima, all’indomani delle elezioni europee che vedranno il primo crollo pentastellato: i consensi allora si ridussero al 17,06 per cento, incoronando la Lega di Matteo Salvini primo partito con il 34,26 per cento dei consensi. Un trionfo e tanta voglia di capitalizzare il tutto sul piano politico. Ed ecco allora, con il beneplacito di Nicola Zingaretti, il tentativo del “capitano” di andare ad elezioni anticipate. Se solo Matteo Renzi non si fosse messo di mezzo, per impedire il colpaccio. Salvo poi abbandonare il PD, per far nascere la sua Italia viva.
Sarà la fortuna insperata di Giuseppe Conte, che abbandonate le mezze maniche da notaio indosserà, accompagnato dal fedele scudiero Rocco Casalino, l’armatura da combattimento. E così bardato continuerà ad essere l’inquilino di Palazzo Chigi. Pronto a gestire il duro corpo a corpo, a forza di DPCM, contro il drago travestito da Covid-19. In un tripudio di bandiere, con i colori della Federazione Russa di Putin e di Cuba: militari e medici chiamati al capezzale del grande malato. Mentre una parte del MoVimento, per non essere da meno, aveva preferito volgere lo sguardo, fin dal marzo 2019, alla “Nuova via della seta”: la Belt and Road Initiative, sotto lo sguardo sempre più corrucciato degli alleati occidentali. Soprattutto americani.
La nascita del governo giallo rosso rappresentò il primo stadio della metamorfosi termidoriana. Per fortuna senza spargimenti di sangue ed i sinistri rumori della ghigliottina. Messe da parte tutte le ubbie sulla democrazia diretta, consumata del tutto la rottura con Davide Casaleggio a proposito dell’uso di Rousseau (l’infrastruttura telematica della votazione istantanea), i “portavoce” degli attivisti, come prima si definivano, tornavano ad essere semplicemente gli apparatčik di partito. I loro movimenti imbrigliati da un nuovo regolamento che prendeva il posto del vecchio “Non statuto”. Con Beppe Grillo che, in un raptus di disperazione, gridava contro il neo presidente del partito – movimento: “sono il garante, non un coglione”.
Era iniziata l’occupazione del potere da parte dell’avvocato. E con essa la progressiva trasformazione del movimento, tra beghe legali e ricorsi in Tribunale, di quella comunità mezza anarchica e mezza libertaria ch’era in origine, nella più tradizionale forma-partito che si potesse immaginare. Con alcune caratteristiche tuttavia. Una linea politica del tutto immaginifica. Sia in politica estera, che in campo nazionale. Prigioniera di una vecchia ideologia punteggiata da forme di autolesionismo. Si pensi solo alla battaglia condotta per ridurre il numero dei parlamentari e segare il ramo su cui il gruppo più numeroso di Camera e Senato era appollaiato. La cosa più grave era la speranza implicita in questa battaglia. Che l’elettorato avesse apprezzato. Ed invece, giustamente, ne rimase olimpicamente indifferente.
Altro tema bizantino: quello del limite del doppio mandato. Figlio, seppur legittimo, della slogan “uno vale uno”. Ma altrettanto demenziale. Talmente devastante da provocare, anche a causa delle incertezze programmatiche sul piano internazionale, (l’ambigua posizione sul tema della guerra e della pace) quella scissione, con alla testa Luigi Di Maio, destinata a dare il colpo di grazia a quel che rimaneva di un MoVimento dissanguato da errori e dalle proprie contraddizioni. Epilogo finale. La scelta dell’Aventino. Quell’uscire di soppiatto dall’Aula di Montecitorio, non per protesta contro le violenze fasciste. Ma solo a causa della decisione del Sindaco di Roma di procedere nella costruzione di un termovalorizzatore. Ed è così che i sogni palingenetici di un cambiamento radicale, basato sul giovanilismo e la democrazia diretta, finiscono per naufragare sui cumuli d’immondizia, che intralciano le vie della Capitale.