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Come e perché la Russia occhieggia a Francia e Germania sulla Siria

Il Punto di Marco Orioles sul summit di sabato a Istanbul tra Turchia, Russia, Francia e Germania sulla Siria

Almeno da un punto di vista formale, il summit di sabato a Istanbul tra Turchia, Russia, Francia e Germania ha segnato un’importante novità nel tormentato processo di pacificazione in Siria: Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin, capi delle due potenze maggiormente coinvolte nella guerra civile che infuria in Siria da quasi otto anni, si sono seduti al tavolo con Emmanuel Macron e Angela Merkel, leader di un’Unione Europea che non ha praticamente toccato palla nella disputa armata che separa il presidente siriano Bashar al-Assad dai ribelli che hanno tentato, invano, di detronizzarlo.

È uno sviluppo significativo, l’inclusione dei due paesi guida dell’Ue nel complicato dialogo tra regime e opposizione fino ad oggi mediato da Russia, Turchia e Iran nel formato dei colloqui a tre di Astana. Un processo che tuttavia, escludendo Washington dal tavolo delle decisioni, soffre di un insormontabile deficit di legittimazione. Senza gli Usa, difficilmente si troverà una quadra agli interessi divergenti delle parti in causa. È per questo che, imbarcando Germania e Francia, la Russia ritiene di poter in parte compensare quel deficit, assicurandosi la partecipazione di due potenziali e generosi contributori all’ingente spesa necessaria per ricostruire un paese in macerie.

Comprensibilmente, il summit di Istanbul si è mantenuto sul piano generico delle dichiarazioni di principio e degli auspici. Nello scarno comunicato finale, i quattro leader hanno sottolineato che “non può esserci una soluzione militare” alla guerra civile siriana, che deve essere “risolta attraverso un processo politico e un negoziato”. Più semplice a dirsi che a farsi, considerata la riluttanza di Assad, risultato vincitore nel braccio di ferro con le opposizioni armate, ad accettare un compromesso che possa minare, almeno in parte, il suo potere assoluto sul paese.

Erdogan, Putin, Merkel e Macron possono comunque salutare con favore, e offrire tutto il loro incoraggiamento, alla tregua tra governo e ribelli siglata lo scorso 17 settembre a Sochi e mediata dai leader di Turchia e Russia. Un accordo raggiunto all’ultimo minuto che ha evitato un bagno di sangue, e una nuova catastrofe umanitaria, nell’ultima ridotta delle opposizioni: la provincia nord-occidentale di Idlib, in cui vivono oggi tre milioni di persone, buona parte dei quali sfollati da altre zone del paese. Un’umanità dolente in mezzo alla quale si trova e si muove il variopinto insieme di milizie e formazioni ribelli che continuano ad opporsi al regime.

Per i quattro leader convenuti a Istanbul, la via d’uscita all’attuale stallo è rappresentata da un negoziato diretto tra regime e opposizione che passi attraverso la convocazione di un comitato chiamato a riformare la Costituzione della Siria. Un passaggio intermedio al termine del quale si dovrebbero convocare elezioni politiche, supervisionate dalle Nazioni Unite, attraverso cui il popolo siriano sarà chiamato ad esprimersi sui nomi di chi dovrà guidare il paese dopo questi otto anni maledetti. È il “processo politico” cui accenna il comunicato finale del summit, che rappresenta, agli occhi di Putin, Erdogan, Merkel e Macron l’unica speranza, ancorché flebile, di addivenire ad un compromesso tra le istanze irriducibili di regime ed opposizioni.

Passare dalle parole ai fatti non sarà, tuttavia, affatto semplice. Vi è infatti un ostacolo insormontabile dinanzi alla road map tracciata dal quartetto: la riottosità di Damasco ad accettare l’intromissione di istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e, peggio, delle odiate opposizioni nella determinazione del futuro del Paese. Un segnale eloquente delle difficoltà a venire è giunta dalle parole dell’inviato, ormai dimissionario, dell’Onu in Siria, Staffan de Mistura. Il quale, alla vigilia del summit, ha denunciato la strenua resistenza di Damasco all’inclusione, come sancito nel vertice di Sochi dello scorso 30 gennaio, di cinquanta delegati nominati dal Palazzo di Vetro nella commissione di centocinquanta persone – le altre cento devono essere nominate rispettivamente dal governo, in misura di cinquanta, e dalle opposizione, per le altre cinquanta – chiamata a discutere in quel di Ginevra i futuri assetti costituzionali e politici della Siria. Una posizione di indisponibilità che si scontra con la chiamata al dialogo ribadita sabato ad Istanbul.

A mettersi di traverso non c’è, inoltre, solo Damasco. Anche la Russia manifesta segnali di impazienza: la tregua stabilita a Idlib potrebbe saltare in qualsiasi momento, ha dichiarato Putin a Istanbul, qualora elementi “radicali” – di cui non fa difetto la provincia ribelle – dovessero indulgere in “provocazioni armate”. In questo caso, Mosca si riserva il diritto di intervenire militarmente offrendo “attiva assistenza al governo siriano per liquidare questa fonte di minacce terroristiche”. “La Siria”, ha rimarcato il capo del Cremlino, “deve essere completamente ripulita dai gruppi radicali”.

La possibilità di nuovi scontri armati in Siria è dunque tutt’altro che remota. Lo dimostrano le parole di un altro protagonista del summit, il turco Erdogan. Il quale ha ricordato agli altri presenti le priorità di Ankara. Che non sono affatto le stesse degli altri leader. Per la Turchia, il problema numero uno in Siria è rappresentata dai curdi. I quali, con l’assistenza di Washington, si sono ritagliati in questi anni un ruolo tutt’altro che marginale nel conflitto, riuscendo ad entrare in possesso e a controllare quasi un terzo del territorio siriano. Territorio che è ora esposto alla minaccia di un intervento militare turco volto a rimettere nella bottiglia il genio dell’autonomismo curdo, dietro al quale Erdogan intravede lo spettro di una ribellione armata capace di debordare nel territorio turco. Uno spettro che Ankara è pronta a contrastare con i duri strumenti della repressione. Non proprio un viatico alla pace per la Siria. “Continueremo ad eliminare le minacce alla sicurezza nazionale” della Turchia “a est del fiume Eufrate e nell’ovest della Siria”, ha promesso Erdogan.

Dal canto suo, il presidente francese Macron ha esortato la Russia ed esercitare pressione sull’alleato siriano affinché “il cessate il fuoco a Idlib” sia “stabile e duraturo”. “Dovremo essere vigilanti”, ha affermato l’inquilino dell’Eliseo, e assicurare che la tregua regga. Macron ha anche spinto su un tasto particolarmente sensibile per l’Europa: quello dei rifugiati siriani. Il loro ritorno in patria è una priorità per un continente che è andato in crisi proprio a causa del massiccio afflusso dei profughi. Il prerequisito per un loro ritorno è, per il presidente francese, l’avvio di quel processo politico su cui a parole tutti e quattro i leader sono d’accordo. “Non ci sarà alcun ritorno reale, sostenibile e credibile” dei rifugiati, ha sottolineato Macron, “se il processo politico non prenderà piede”.

Le priorità di Macron hanno riecheggiato nelle parole proferite da Angela Merkel alla conferenza stampa tenuta dai quattro leader al termine del summit. La priorità, per la cancelliera, è evitare nuovi “disastri umanitari”. È per questo che il cessate al fuoco a Idlib è essenziale: Damasco, ha evidenziato Merkel, deve cessare di muovere “guerra contro larga parte della sua popolazione”. La tregua deve quindi rappresentare l’occasione per rilanciare il processo politico. Una “soluzione” al conflitto, per Merkel, deve ora essere trovata e passerà per “negoziati politici” da tenersi “sotto la leadership delle Nazioni Unite”. Negoziati che dovranno culminare con “libere elezioni aperte a tutti i siriani – inclusi quelli della diaspora”.  Ciò significa, anzitutto, che devono esserci “le precondizioni” per un ritorno in sicurezza di tutti i profughi. “Dal nostro punto di vista”, ha affermato Merkel, “è necessario che ci siano assicurazioni che non ci siano persecuzioni o arresti, e che certe fondamentali condizioni umanitarie siano garantite”.

Dal summit di Istanbul emerge insomma un consenso, esteso a tutti e quattro i capi di Stato e di governo, sulla necessità di addivenire ad una soluzione negoziale, tra regime ed opposizione, al conflitto. Un punto di convergenza che non cancella però le divergenze, anche radicali, sul modo e sull’esito di un processo politico che langue da troppo tempo e su cui nessuno metterebbe la mano sul fuoco.

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