L’invasione russa dell’Ucraina non può essere derubricata a conflitto regionale. Per il progressivo coinvolgimento di un numero crescente di attori e per l’escalation a cui stiamo assistendo sarebbe importante tentare di darne una lettura nel più ampio contesto della crisi di quel fenomeno che chiamiamo “mondializzazione”.
Sono i temi al centro della conversazione con Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes.
Alla luce dello scoppio della guerra in Ucraina, come vede lo sviluppo di quella complessa dinamica che è la globalizzazione?
Globalizzazione e geopolitica interagiscono. La prima è un fenomeno essenzialmente economico, al quale si associa anche un’ideologia, che potremmo identificare come facciamo a Limes con il termine di economicismo o, per dirla alla Tremonti, mercatismo. La seconda invece ha a che fare con i rapporti di potenza, ovvero con la politica. Nelle fasi di tensione, la politica torna immancabilmente a imporre il suo primato, che del resto aveva contemplato già Adam Smith, inquadrandolo nella cosiddetta “eccezione di sicurezza”. Sostanzialmente, la globalizzazione e l’integrazione dei mercati procedono senza intoppi finché non incontrano crisi politiche di maggiori dimensioni. Sta accadendo adesso: per tentare di piegare la Russia, che ha commesso un grave illecito internazionale attaccando l’Ucraina, si prova a de-connetterla dall’economia globale. Il fatto che l’economia russa sia di dimensioni contenute ha indotto un certo ottimismo in merito alle possibilità di successo e alla sostenibilità di questa strategia, che certamente danneggerà Mosca, anche se probabilmente implicherà un prezzo importante anche per i Paesi chiamati a isolarla.
Le delocalizzazioni (uno dei pilastri della globalizzazione economica) hanno alimentato tensioni nei Paesi occidentali (si pensi ad esempio ai gilet gialli). Come riusciranno le élite (in particolare nel cuore dell’Impero) a sedarle?
Il problema era la crisi della classe media, che persiste, ma alla quale si possono dare varie risposte. Ho la sensazione che la ripresa della conflittualità ricompatterà le società più esposte, se persisterà o si aggravasse. In Francia, Macron è stato riconfermato senza doversi impegnare in una vera campagna elettorale. La Germania è stata allineata al punto tale da aver imboccato la strada del riarmo. Dovremo aspettare le elezioni di mid-term per vedere cosa stia realmente accadendo negli Stati Uniti. La mossa fatta da Elon Musk è rivelatrice tuttavia della necessità, ormai diffusamente avvertita, di assicurare a tutti i contendenti la possibilità di veicolare le proprie idee. Il dibattito americano ha importati riverberi ideologici, ma concerne in larga misura la questione irrisolta della postura statunitense nel mondo. I democratici non sono riusciti a derubricare né Trump né le istanze cui aveva dato voce. L’ex Presidente, interprete di una linea di non ingerenza negli affari interni altrui che riconosce a ciascun Paese il diritto di perseguire i propri interessi nazionali finché non diretti contro gli Stati Uniti, può ancora dire la sua. Lo scopriremo molto presto.
Che rapporto ci sarà fra tecnologia, globalizzazione e conflitti? E come cambieranno i rapporti fra Usa e Cina?
La globalizzazione è una necessità imposta dal ritorno sugli investimenti sempre più ingenti che occorrono per spostare in avanti la frontiera della tecnologia. Remunerarli e rifinanziarli sarà più complesso se i mercati si restringessero. I maggiori attori del sistema sembrano capirlo. Difficilmente la Cina verrà esclusa dall’economia globale: la sua dirigenza si sta dimostrando cauta nei confronti della Russia anche per non incorrere nelle sanzioni secondarie degli Stati Uniti, che teme. Ma anche gli americani hanno bisogno dei cinesi. Nel 2020, Biden ha avuto il sostegno finanziario e i voti di quella parte dell’establishment Usa che della Repubblica Popolare ritiene sia meglio non fare a meno. Ovviamente, tutto questo cederebbe di fronte alle tensioni geopolitiche montanti, se non si trovasse il modo di gestirle. Le esigenze della politica e della sicurezza nazionale normalmente prevalgono sulla logica del profitto e del ritorno sugli investimenti. E quando ciò si verifica, sono gli Stati a riprendersi la scena, tornando in forza anche nell’economia. È uno scenario che abbiamo già visto nel Novecento.