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Cina Russia Turchia

Come andranno le economie di Cina, Russia e Turchia

L'analisi di Maurizio Sgroi sul futuro post Covid delle economie di Cina, Russia e Turchia

 

La crisi Covid, colpendo duramente i paesi emergenti, ha perciò favorito il loro graduale processo di assimilazione delle policy delle economie avanzate, che comunque era già iniziato da parecchio tempo. Come esempio basti ricordare che molti paesi emergenti hanno istituito da anni mercati locali dove emettono bond sovrani. Collocare debito in valuta nazionale vuol dire liberarsi dalla necessità di indebitarsi esclusivamente in valuta estera. La Cina quest’anno collocherà bond sovrani per 170 miliardi di yuan in tre lotti proprio per far fronte alle esigenze Covid.

Questo assimilarsi ai paesi avanzati è probabilmente anche la ragione che insieme ad altri fattori – non ultimi quelli demografici – contribuisce a spiegare la ripresa relativamente veloce prevista dagli osservatori. Economie che “replicano” le policy dei paesi avanzati – ad esempio sul versante della trasparenza – favoriscono evidentemente la logica di funzionamento dei mercati, persino se si tratta di economie pianificate.

Tuttavia, altri fattori, stavolta di natura più squisitamente politica, potrebbero servire a spiegare meglio lo scenario complessivo nel quale queste economie si trovano ad operare ed alcune tendenze recenti emerse fra alcuni di questi paesi. In particolare, quella di creare connessioni economiche più profonde gli uni agli altri in maniera non semplicemente difensiva, ma potenzialmente anche offensiva.

IL TRIANGOLO EUROASIATICO

Gli indizi sono disseminati fra le cronache. Nella seconda metà di maggio, quindi in piena crisi Covid, la banca centrale turca ha annunciato di aver triplicato da 5 a 15 miliardi di dollari la capienza della sua linea di swap valutario con la banca centrale del Qatar. Una mossa comprensibile alla luce non solo della situazione macroeconomica turca, gravata da un notevole debito estero in valuta e da un costante assottigliarsi delle riserve, ma anche dagli impegni cui la Turchia deve far fronte per sostenere la sua postura in aree complicate come la Siria e soprattutto la Libia, dove il Qatar è partner strategico della Turchia.

Se la comunanza di intenti militari, e quindi finanziari, che avvicina la Turchia al Qatar può avere fra le sue motivazioni anche il movente religioso, il movente politico si intravede con chiarezza nelle recenti dichiarazioni che il ministro del commercio turco ha rilasciato discorrendo con la Cina – uno dei principali partner eccedentari della Turchia – delle future relazioni bilaterali.

La Turchia ha messo sul piatto le sue esportazioni di merci ad alto valore aggiunto per provare ad equilibrare un commercio estero ancora troppo sbilanciato a favore di Pechino. Ma soprattutto ha proposto di utilizzare le rispettive valute per regolarne i pagamenti. Ankara, ha sottolineato il ministro turco, potrebbe diventare un hub regionale ideale per le imprese globali cinesi, anche in virtù dei suoi rapporti con l’Unione Europea, con la quale la Turchia condivide una unione doganale sin dalla metà degli anni ’90. In questo modo il paese che potrebbe essere una efficace porta d’ingresso per le merci cinesi in Europa, replicando il ruolo che già interpreta per il gas russo.

S’intravede, insomma, quello schema che abbiamo immaginato, di una globalizzazione emergente di marca eurasiatica, proprio alle spalle dell’Europa, costruita su un triangolo di interessi che trova i suoi vertici in Cina, Russia e Turchia, con quest’ultima terminale ideale per la penetrazione in Europa grazie ai suoi rapporti con la UE, la NATO e gli USA.

Tracce di questo triangolo di interessi se ne trovano diverse. Qui possiamo limitarci a illustrarne una molto rilevante per la comprensione degli attuali processi di globalizzazione. Ha a che fare con una delle componenti principali di qualunque internazionalizzazione, insieme con la lingua, le rotte commerciali e l’ordine politico: la moneta nella quale vengono denominati gli scambi.

SULLE VIE DELLA DE-DOLLARIZZAZIONE

Il riferimento all’uso di valute locali rivolto dalla Turchia alla Cina va inquadrato in una tendenza più ampia che ormai è parte integrante di quel “far sistema” che molte economie emergenti stanno sperimentando per sostenersi a vicenda. E magari per far emergere una globalizzazione concorrente a quella statunitense, che col dollaro denomina gli scambi internazionali.

Questa tendenza la riscontriamo nell’incipiente processo di de-dollarizzazione intrapreso da alcune economie emergenti, del quale troviamo traccia nell’ultimo rapporto sul ruolo internazionale dell’euro pubblicato dalla Banca Centrale Europea, dove peraltro viene confermato il ruolo dell’euro come seconda valuta più utilizzata a livello globale, ma ben distante dal dollaro. Una posizione che somiglia a un destino, malgrado da più parti in Europa si sottolinei l’intenzione di far crescere i mercati dell’euro, almeno fino a quando sarà vigente l’attuale ordine globale, che nella supremazia del dollaro trova una delle sue chiavi di volta.

Nel rapporto BCE leggiamo che fra i paesi che più di tutti hanno venduto asset in dollari, nell’ultimo biennio, ci sono proprio Cina, Russia e Turchia.

Questo disfarsi di riserve in dollari – che può esser stato deciso sia per far fronte a necessità finanziarie, come per il dichiarato intento di aumentare l’esposizioni in valute diverse – segnatamente euro e yuan – o in oro, ha portato la Cina a vedere diminuita la sua quota di riserve in dollari di circa 120 miliardi in poco più di un anno e mezzo e la Russia di un’ottantina, con la Turchia a seguire con circa 40 miliardi in meno, probabilmente in parte per sostenere la quotazione della lira turca. Tuttavia, nello stesso arco di tempo si sono infittiti i pagamenti in valute diverse dal dollaro non solo fra questi paesi, ma anche fra costoro e molti paesi a loro vicini.

Alcune economie emergenti, spinte anche dall’uso aggressivo delle sanzioni valutarie volute dagli Usa, hanno mostrato di voler costruire un sistema globale di pagamenti non necessariamente alternativo ma quantomeno concorrente a quello basato sul dollaro statunitense. Gli scambi di materie prime – petrolio in testa – sono stati il pretesto ideale.  E questa non è certo una novità. Qualcuno ricorderà, a tal proposito, le dichiarazioni dell’ex presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker che si interrogava sul senso di pagare in dollari anziché in euro il petrolio e il gas. Se mai l’euro – e quindi l’Europa – vorrà sfidare la supremazia del dollaro, e quindi degli Stati Uniti, è assai probabile che userà il mercato dell’energia come grimaldello.

Gli scambi commerciali regolati con valute locali fra alcuni paesi emergenti concorrono perciò probabilmente a spiegare parte del declino delle loro riserve in dollari. Al tempo stesso però si osserva che a ciò ha fatto da contrappeso un aumento delle riserve valutarie in dollari in Europa e in Giappone, partner storici degli USA nel grande gioco dell’economia internazionale. Rimane il dubbio se tali movimenti siano puramente congiunturali o rappresentino la conferma della tendenza a permanere degli equilibri del passato.

Quest’ultimo, per decenni, ha rappresentato un copione dove le economie meno progredite venivano destabilizzate dall’onda d’urto delle crisi che esplodevano nei paesi avanzati, per lo più a causa delle ampie oscillazione del ciclo finanziario provocate da ondate di credito facile. Il copione prevedeva a questo punto che queste economie venissero “purgate” da politiche economiche ordite dagli organismi internazionali.

La crisi Covid, lo abbiamo visto, mostra una crepa nel copione, determinata non solo dalla maturazione di alcuni di questi paesi, ma anche dall’approfondirsi delle relazioni che li legano sempre più fra loro, grazie soprattutto alla spinta della Cina, che della globalizzazione emergente è il principale motore. La stessa crisi, quindi, che ha determinato un notevole arretramento di queste economie può fornire loro il pretesto per approfondire ulteriormente i loro rapporti, un po’ come sta succedendo – o dovrebbe succedere – nell’Unione Europea che dovrebbe iniziare ad abbozzare una politica fiscale comune.

Gli strumenti istituzionali esistono già. Oltre ai BRICS, che sono diventati anche un organismo di consultazione (BRICS Business Council), ci sono varie organizzazioni internazionali che raggruppano i paesi emergenti, come ad esempio lo SCO (Shanghai Cooperation Organization) o l’Unione Euroasiatica creata dalla Russia di Vladimir Putin, che stanno provando a portare avanti un processo di internazionalizzazione concorrente con quella attuale.

Qualcuno ha detto, anche di recente, che non bisognerebbe mai sprecare una buona crisi. I paesi emergenti, o almeno quelli di loro che sembrano avere un piano di lungo termine, sembra vogliano far tesoro di questa massima. Quelli avanzati chissà.

(Estratto di un articolo pubblicato su Aspenia, qui la versione integrale)

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