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Xi

L’economia della Cina frena più dei dati ufficiali. Parola di Alberto Forchielli

I dati congiunturali della Cina diramati oggi. I confronti. E l'analisi di Alberto Forchielli, manager, imprenditore e saggista.

“I dati sulla crescita cinese sono fasulli. In realtà il Paese è in recessione”. Così commentava giorni fa alcuni dati congiunturali della Cina Alberto Forchielli, manager, imprenditore e saggista.

Forchielli, dalla personalità poliedrica e frizzante anche sui social, non usa perifrasi quando parla di economia, anche cinese: un Paese che conosce a fondo come tutta l’Asia.

Le tesi sono ancora più significative oggi, visti gli ultimi dati ufficiali che arrivano da Pechino.

La produzione industriale in Cina sale del 5,7% annuo a dicembre, accelerando il passo rispetto al 5,4% di novembre e al 5,3% atteso dai mercati. Considerando l’intero 2018, in base ai dati diffusi oggi dall’Ufficio nazionale di statistica, la crescita è invece del 6,2%.

Non solo: gli investimenti fissi in Cina hanno segnato nel 2018 un aumento del 5,9%, confermando anche a dicembre il passo dei primi 11 mesi, ma scivolando poco sotto il 6% atteso dai mercati. Il settore privato, secondo l’Ufficio nazionale di statistica, mantiene anche a dicembre il ritmo di gennaio-novembre (pari all’8,7%), mentre quello pubblico scivola dal 2,3% all’1,9%.

Le vendite al dettaglio in Cina salgono dell’8,2% annuo a dicembre, in linea con le attese degli analisti e poco più dell’8,1% di novembre che è stato il passo mensile più lento da maggio 2003.

Per l’intero 2018, secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica, la crescita si attesta al 9% in scia soprattutto alla spinta positiva del primi quattro mesi dell’anno che ha aiutato a compensare parzialmente il successivo rallentamento.

“Tutti quanti sono molto preoccupati per la direzione presa dalla situazione internazionale, che presenta molte variabili e fattori di incertezza”, ha comunque spiegato il commissario Ninh Jizhe, a capo di Nbs, l’Ufficio Nazionale di Statistica, spiegando che “per la seconda economia mondiale, dove il commercio pesa per un terzo del prodotto interno lordo, questo ha un impatto” e concludendo quindi che “la pressione al ribasso” sull’economia è aumentata.

Da questo punto di vista, non si può non notare come la performance cinese si sia mostrata debole soprattutto negli ultimi tre mesi dell’anno, quando si è mossa a un ritmo del 6,4% che il Dragone non vedeva dalla crisi finanziaria globale di 10 anni fa.

Il premier Li Keqiang si è mosso per tempo, assicurando già la scorsa settimana che il governo non lascerebbe l’economia nazionale “precipitare da una scogliera”. Ma indicazioni preoccupanti non arrivano solo dai dati economici. Il 2018 ha infatti evidenziato un colpo di freno anche sul piano demografico per la Cina, nonostante l’abolizione della politica del figlio unico. Con 15,32 milioni di nascite, che portano il numero dei cittadini a 1,393 miliardi, la nazione si conferma la più popolosa del mondo.

Anche qui, però, a sollevare timori è il rallentamento, pari a due milioni di nascita in meno sull’anno precedente, che lascerebbe presagire un progressivo invecchiamento della popolazione, in grado di mettere ulteriormente sotto pressione l’espansione economica.

DI SEGUITO UN ESTRATTO DELL’INTERVISTA DI FORCHIELLI A FORBES ITALIA PUBBLICA SUL BLOG DI FORCHIELLI

Le prime avvisaglie negative sono arrivate dagli ultimi dati comunicati da Apple, che negli scorsi giorni ha annunciato una significativa revisione al ribasso per le previsioni dei risultati del primo trimestre fiscale 2019, che per il gigante di Cupertino va dal mese di ottobre e dicembre 2018.

Per Forchielli, i guai incontrati da Apple sono il segno di problemi più profondi: la Cina è più debole di quanto avessimo capito, deve trasformare radicalmente la sua economia e quanto sta succedendo pone un altro tassello nel quadro di deglobalizzazione già in corso.

“Tre sono i motivi della crisi cinese contemporanea”, ha spiegato Forchielli: “Innanzitutto, il debito pubblico e privato che ha raggiunto quasi tre volte le dimensioni del Pil. Questo è stato il modello di crescita della Cina: le grandi banche che finanziavano immensi investimenti pubblici e privati. Ma siamo arrivati a un punto in cui il giocattolo non funziona più”.

La Cina, in altre parole, è invecchiata. Proprio come l’Europa. “Gli investimenti valevano il 50% del Pil, una cosa dissennata – altrove è al massimo del 20-25 per cento. Molti investimenti sono stati fatti senza pensare al ritorno, e così il debito non è stato ripagato”. Ma la sovranità monetaria della Cina non può venire in soccorso? “Beh certo, per ripagare i debiti il governo dovrebbe stampare moneta, mandando l’inflazione fuori controllo, così i capitali lascerebbero il paese, l’inflazione esploderebbe, e così anche il conflitto sociale. No, i cinesi devono restringere il debito perché le banche non hanno più soldi”.

Fermiamoci un attimo: e la crescita del Pil, secondo gli ultimi report, del 6,5 per cento? Sarà pure in rallentamento, ma è stellare rispetto gli standard occidentali. “Macché. I dati sulla crescita cinese sono fasulli”, dice. “In realtà il Paese è in recessione, te lo dico io”.

Del resto anche il giornalista Scott Rosenberg di Axios aveva spiegato che, sebbene il segnale d’allarme lanciato da Apple sia un evento raro, che non mette in discussione la salute dell’azienda in altri mercati, non andrebbe comunque preso sotto gamba: “Lo sguardo di Apple su quanto sta davvero succedendo in Cina è probabilmente più affidabile delle informazioni ufficiali sullo stato dell’economia cinese. In altre parole potrebbe essere più una brutta notizia per la Cina – e per l’economia mondiale – che per Apple”. Da qui la performance della borsa cinese, la peggiore degli ultimi dieci anni: “Si spiega col fatto che le imprese hanno meno credito, l’economia cresce meno, si contrae la domanda e la liquidità è minore. Gli investitori sono soggetti a questo: redditività e liquidità, e vale per la Cina così come per l’Occidente”.

“Il secondo fattore della crisi è – anche se può sembrare paradossale – l’incredibile crescita tecnologica dell’economia cinese”, dice Forchielli. Vale a dire l’enorme afflusso di credito canalizzato in innovazione scientifica. “Per aumentare il tenore di vita e gli stipendi la Cina ha capito che doveva aumentare la qualità delle produzioni. Smetterla di produrre palle di natale, ma telefonini e dighe, e centrali termoelettriche. Hanno colpito nel segno: così il Paese ha prosperato”. C’è quell’articolo del New York Times che parlava dell’American Dream che adesso è vivo e vegeto, ma in Cina. “In un certo senso hanno ragione. Nessuno nega il miracolo cinese. Mica gli investimenti sono stati tutti sprecati. E questo però ha portato la Cina a confliggere con gli interessi americani, vedi il problema del cyberspionaggio industriale, del furto delle idee”. Questa strategia è stata funzionale, anche alla mutazione dell’economia cinese da una tutta orientata all’export ad una con una forte domanda interna. “Certo, e questo ci porta al terzo fattore della crisi, ben segnalato dal rapporto della Apple”.

Quale? “I consumatori cinesi si stanno dimostrando sempre più nazionalisti. Lo erano anche prima, ma adesso che i prodotti cinesi sono all’altezza di quelli importati, lo sono senza ritegno”. Immagino anche a causa della politica dei dazi di Trump con l’uomo-chiave di questa guerra commerciale, Bob Lighthizer, il Trade Representative dell’amministrazione, una delle poche figure inamovibili, che vuole isolare sempre di più Pechino. E poi guerre di prossimità, come l’arresto della direttrice finanziaria di Huawei in Canada, o il Dipartimento di Stato americano che ha inviato un’allerta ai concittadini sui rischi di recarsi in Cina. “C’è tutto questo, ma anche il fatto che ormai i cinesi sanno fare cellulari di qualità paragonabile ad Apple. Questo, unito alle tensioni, ha provocato una vera e propria ondata di ‘compra cinese’: moltissime imprese locali danno premi ai dipendenti se si sbarazzano di tecnologia americana e comprano quella nazionale”.

Ma qual è stato finora l’impatto dei dazi di Trump? “Quasi insignificante, direi. Chi dice il contrario sono le grandi banche e i grandi complessi multinazionali che sono giustamente preoccupati dalla contrazione dei profitti. Sicuramente i dazi hanno avuto un ruolo nella contrazione degli scambi, ma non così centrale come vogliono farti credere i media liberal. Il problema è il consumo interno cinese che è rallentato, per problemi tutti loro. È troppo presto per valutare gli effetti della guerra commerciale secondo me. Nel frattempo negli Stati Uniti sono stati creati solo a dicembre 312mila posti di lavoro, e l’economia americana va ancora alla grande”.

Facciamo un bilancio: come si traduce questo ridimensionamento dello sviluppo cinese in scenari futuribili? “Io dico che la guerra commerciale rientrerà, perché Trump ha bisogno di un accordo che abbia un impatto benefico sui mercati azionari, perché ci sono elezioni tra meno di due anni. Con la tregua la Cina avrà un sospiro di sollievo, ma non basterà a riportarla sulla traiettoria di crescita degli ultimi vent’anni. Ormai i tempi sono cambiati. I problemi sono tutti made in China, non c’entrano con la guerra”.

 

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