Il bazooka di Xi Jinping si azionerà l’8 novembre. Per quel giorno è previsto un incontro del comitato permanente che dovrebbe decidere finalmente l’entità del pacchetto di stimoli le cui anticipazioni sono state centellinate nel mese di ottobre. Dopo l’allentamento della Banca centrale cinese di fine settembre alle condizioni del credito, si aspettano stimoli robusti per mettere una toppa a un paio di problemi che la Cina si trova a dover gestire.
La prima toppa sarebbe la possibilità per le province di indebitarsi fino a 560 miliardi di dollari per comprare terreni non utilizzati e case costruite ma rimaste invendute. La seconda sarebbe un aumento dell’indebitamento del governo centrale per 420 miliardi di dollari, da destinare a capitalizzare le banche, ad aiuti per le province e sussidi alle famiglie. In particolare, tali sussidi sarebbero destinati all’aumento delle pensioni (in Cina vi sono 165 milioni di pensionati poveri, secondo le statistiche), a contributi per l’assicurazione medica degli indigenti e contributi in denaro per coppie con figli.
In ogni caso, lo stimolo riguarderà soprattutto gli aspetti finanziari (sollievo al debito delle province e ricapitalizzazione delle banche). Quello che sembra certo è che non vi sarà né una spinta sugli investimenti né un vero stimolo ai consumi interni. Ciò anche se i rischi di deflazione permangono nell’economia cinese, con l’inflazione che punta a zero e un mercato del lavoro debole che pesa sui consumi e incentiva il risparmio. È soprattutto, ancora, il mercato immobiliare a pesare, con le vendite in calo e la perdita di valore delle case, mentre i consumi delle famiglie sono sì sotto la linea di tendenza, ma non sono drammaticamente peggiorati.
Ecco perché il governo di Pechino pensa che innanzitutto sia necessario risolvere il problema immobiliare.
Ma questo potrebbe cambiare se Donald Trump dovesse vincere le elezioni negli Stati Uniti. Non è un caso, infatti, che Pechino attenda l’8 novembre per scoprire le sue carte: la variabile “The Donald” è abbastanza ingombrante.
Trump in campagna elettorale ha annunciato dazi del 60% sulle merci dalla Cina e del 20% per tutte le altri importazioni. Questo sarebbe un problema serio per la Cina, considerato che il round di dazi già sperimentato nel primo mandato di Trump è stato assorbito dalla Cina agevolmente per via di una combinazione di fattori:
- le sanzioni occidentali alla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina, che hanno espanso la quota di export cinese verso la Russia;
- uno yuan debole;
- l’enorme stimolo ai consumi derivante dai sussidi del periodo lockdown.
Vero è che al di là di questi eventi contingenti, la Cina si è organizzata. Prima si è accordata con paesi terzi per differenziare le fonti dell’import americano (ad esempio il Vietnam). Poi i cinesi hanno trovato nuovi mercati, tra cui la Russia, appunto, l’Indonesia, l’India, il Brasile. Infine, i produttori cinesi non hanno aumentato i prezzi. Quest’ultimo dato è importante: esclusi i dazi, i prezzi all’importazione negli USA delle merci cinesi sono all’incirca gli stessi del 2017.
Se Trump dovesse vincere le elezioni e dovesse attuare davvero la sua minaccia di tassare del 60% i beni cinesi, questa volta sarebbe difficile per la Cina trovare alternative. Le tre condizioni contingenti che hanno aiutato ad evitare danni nella prima tornata di dazi sono irripetibili. Con l’export cinese che domina il mondo, è difficile che lo yuan possa deprezzarsi ancora molto.
Dunque, la settimana prossima segna davvero un momento storico molto importante.