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Cibo

Vi racconto la (mia) rivoluzione americana del cibo in scatola

Con le scatolette americane, entrammo nella modernità. Anche in Italia, il cibo in scatola ebbe successo. Il Cameo di Ruggeri.

Era il 1950, avevo 16 anni, improvvisamente la mia, la nostra, vita cambiò. La modernità e la tecnologia irruppero in casa nostra. Con i primi risparmi la mamma fece due mosse strategiche. Un nostro conoscente, addetto al Cimitero Monumentale, mise una lastra di marmo recuperato sul tavolo di cucina (trasformandolo così in un attrezzo per cucinare), poi comprammo la “ghiacciaia”: era in legno, sembrava una bara per neonati. Toccava a me il sabato pomeriggio attendere l’arrivo di un camioncino che distribuiva il ghiaccio in pani. La mamma mi nominò gestore della ghiacciaia, fissò il protocollo: la sua apertura doveva essere rara, mentre la chiusura rapida. Mi delegò entrambe le attività. Finalmente il burro trovò il suo nido, non più sul davanzale della finestra di notte, e di giorno in una ciotola, sotto il filo d’acqua del rubinetto.

Il piano di marmo e la ghiacciaia (e lo stipendio Fiat della mamma, un paio d’anni dopo anche il mio) cambiarono radicalmente la nostra alimentazione. Da pane-latte-minestrone (e solo per me, entrato nella pubertà, un uovo all’ostrica alla domenica, gli altri giorni un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo che dava diritto a un microscopico zuccherino), passammo all’assunzione di proteine nobili, come il burro, le acciughe sotto sale (estratte dal barilotto come fossero ostie) poi il pecorino garfagnino sotto-cenere. Quindi la carne di cavallo cruda, solo il giovedì, e solo per me.

La carne di vitello e il parmigiano sarebbero arrivati anni dopo, quando la ghiacciaia fu sostituta da Sua Maestà, l’imponente Frigorifero Fiat. Era bellissimo. Lo amai come un fratello.

Ma la vera svolta culturale avvenne con l’arrivo, via piroscafo e treno, della prozia Mary, sorella della nonna. Era una sessantenne langarola piccola, robusta, uno sguardo freddo, simil amish, oggi si direbbe con “zero empatia”, trasferitasi in California all’inizio del Novecento. Era venuta per avere la benedizione di Papa Pio XII per l’Anno Santo 1950. A parte un’enorme valigia per se, a noi aveva portato, denunciandolo come Pacco Unrra, un grosso baule pieno di scatolame.

Ogni apertura di scatole fu una festa. C’era la carne, rosata, avvolta da una meravigliosa gelatina, il tonno, le sardine, strani salumi, pomodori in pezzi e in passata e una farina di uova (un’autentica schifezza).

Con le scatolette americane, entrammo nella modernità. Anche in Italia, il cibo in scatola ebbe successo. Per nulla in casa nostra, la mamma lo bocciò, e fu per sempre, preferiva andare a comprare al mercato dai contadini della collina torinese, non solo verdura e frutta, ma anche uova, polli, conigli. Solo il tonno in scatola sopravvisse, la qualità crebbe via via. Da anni il tarantello rosso di Carloforte, almeno due scatole da 350 gr., le ho in cambusa, sempre, per accoppiarle con i rari fagioli di Pigna.

LA CRESCITA DELLA CLASSE OPERAIA DI TORINO

Negli anni Cinquanta e Sessanta la classe operaia a Torino ebbe una grande crescita sociale. Vittorio Valletta, con l’esplosione del mercato dell’auto, adottò una politica retributiva ispirata a quella praticata quarant’anni prima a Detroit da Henry Ford: gli operai Ford dovevano essere in grado di comprare il mitico modello T, quindi ebbero alte retribuzioni. Una genialata di marketing, ma pure sociale!

Lo stesso avvenne a Torino, con l’esplosione della Fiat nacque un grande indotto operaio, e molte attività artigianali vennero meccanizzate. Esplose il lavoro a casa delle mogli degli stessi operai: divennero camiciaie, pantaloniste, modiste, persino “bordeuse” (cucivano le tomaie delle scarpe), però tecnologiche.

Una nostra conoscente aveva una macchina che operava sulle smagliature delle prime calze di nylon femminili. Affascinanti le due postazioni di lavoro, le ricordo ancora: una gamba-manichino di celluloide sulla quale si infilava la calza di nylon da riparare. Anni dopo le ritrovai, rese artistiche, a una mostra sulle Muse inquietanti.

L’aristocrazia operaia torinese, ormai totalmente votata alla produttività, come cibo standard, si autoimpose il piatto unico. Fu un mito, antesignano del toast, dell’hamburger, quindi dell’apericena. Era “Uova-Piselli-Tonno”. Tre ingredienti di facile reperibilità, tutti a scadenza lontana. Bastava un fornello per far bollire le uova e i piselli, e il piatto era pronto. Era adatto a tutti, dallo studente fuori sede, al “baracchino” dell’operaio, in fabbrica o nell’edilizia, mentre al pranzo della domenica veniva infiocchettato. Mangiandolo ci si sentiva, non più operai, ma avanguardisti del progresso.

La mamma mai si associò, preferiva cibi freschi contadini. E così è a casa nostra, tuttora.

Buone Vacanze!

Zafferano.news

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