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Puritani

Chiesa e Stato nell’esperienza religiosa e politica dei puritani

Il Bloc Notes di Michele Magno

Alla fine del Cinquecento, cominciano a essere chiamati puritani quei calvinisti inglesi che volevano realizzare la Riforma protestante nella sua radicalità. Come ha scritto l’eminente studiosa del luteranesimo Elena Bein Ricco in una monografia di cui sono debitrici queste note, l’idea centrale che sta a fondamento della loro “Covenant theology” (teologia federale) è che i credenti hanno un patto di salvezza con Dio e, di conseguenza, sottoscrivono un patto tra loro per dare vita alla chiesa e allo Stato (“Un tema tra teologia e politica”, in AA.VV, “Un patto per il futuro”, a cura di Paolo Naso, Claudiana, 2012)

Quest’idea del patto affonda le sue radici nel racconto biblico che trova nella vicenda dell’Esodo, della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto e nell’Alleanza del Sinai i suoi capitoli più significativi. Il riferimento al patto tra Dio e il suo popolo, che segna con continuità la storia di Israele e della chiesa, rimane una costante del protestantesimo riformato. Così, nella Ginevra di Calvino la comunità politica e quella ecclesiastica vengono fondate davanti al Creatore mediante un patto giurato di tutti i cittadini. Il medesimo riferimento all’Antico Testamento e al modello dell’Esodo è presente nel “Covenant” dei calvinisti scozzesi (1557), nel “Patto del Mayflower” dei Padri Pellegrini (1620) e nei numerosi Patti del popolo redatti durante la rivoluzione dei puritani inglesi.

Non è dunque un caso che nella loro esperienza religiosa e politica il patto venga inteso come “il vincolo umano più alto”. Infatti, come afferma il politologo americano Michael Walzer nel saggio “La rivoluzione dei Santi” (1965), essi descrivono nei termini del patto, ovvero di un contratto liberamente e volontariamente sottoscritto, il rapporto che lega l’uomo a Dio, il santo ai suoi compagni, il pastore alla chiesa e il marito alla moglie.

Posto di fronte al Signore, il credente, mentre è liberato dalla subordinazione a ogni autorità, è chiamato alla responsabilità di dare testimonianza della sua fede e di renderla visibile nella concretezza del suo agire quotidiano, rispondendo alla vocazione che Dio gli ha rivolto. La fede, in altri termini, se vuole essere autentica, non può restare inoperante, chiusa nell’interiorità, ma deve poter dare una direzione vocazionale all’esistenza, producendo comportamenti evangelicamente orientati e scelte significative, di cui ciascuno è responsabile in prima persona. In questo intreccio di libertà e di responsabilità, di obbedienza e di deliberazione individuale si gioca il patto con Dio e il credente costruisce la sua identità di soggetto spiritualmente autonomo.

Il concetto di patto svolge poi un ruolo cruciale in riferimento nel  matrimonio  e nella famiglia, Il matrimonio, nel Puritanesimo, assume la fisionomia di un libero rapporto contrattuale in cui l’uomo e la donna decidono di costruire un progetto di vita comune e di esprimere, nelle loro relazioni reciproche, quel patto dell’amore e della grazia di Dio nel quale la creazione trova la sua finalità primaria. In base a questo accordo, il marito e la moglie promettono di realizzare una comunione di affetti e si impegnano a prestarsi “aiuto e conforto”. Gli scritti puritani sul matrimonio apparsi in Inghilterra nel corso del Seicento — ad opera soprattutto di Thomas Gataker, William Gouge, Richard Baxter, William Perkins e Daniel Rogers — esaltano il valore dell’amore coniugale come “uno dei più grandi beni della vita” ed enfatizzano quell’ideale di “matrimonio solidale” in cui la relazione affettiva è anche un rapporto di amicizia e di sostegno vicendevole tra marito e moglie.

Come il matrimonio, anche l’istituzione familiare è uno dei luoghi in cui il patto e la vocazione si congiungono strettamente. Non per caso la famiglia, per i puritani, deve essere organizzata come un “piccolo commonwealth”, in cui il ruolo vocazionale del padre è simile a quello del magistrato della cosa pubblica poiché ha il compito specifico di amministrare la sua casa in modo da realizzare in essa uno stile di vita disciplinata e un assetto di relazioni improntate a criteri di giustizia, che vada a gloria di Dio.

Se certamente ciò esprime una concezione ancora patriarcale, con la conseguente sottomissione dei figli e della moglie al marito, è pur vero che, fondando la famiglia sull’idea del patto, il Puritanesimo apre la strada a nuovi spazi di autonomia e di libertà individuale per i soggetti che la compongono. In particolare, con l’attribuire al matrimonio il carattere di un contratto liberamente sottoscritto, si rende possibile una ridefinizione in senso più egualitario del rapporto tra marito e moglie e una modificazione dello status della donna. Quest’ultima non è più confinata nell’esercizio della funzione procreatrice, ma è ora considerata la compagna del marito e diventa protagonista del progetto di vita coniugale. Diviene lettrice e interprete della Bibbia e acquista una sempre maggiore capacità di introspezione e di autoespressione, come dimostra la rilevante presenza femminile tra gli autori puritani di diari e autobiografie nel Seicento inglese.

Mentre la tradizione cristiana e cattolica, con Agostino, aveva affermato che la vocazione del credente è la “comunione con Dio” e la “felicità eterna” e che l’esistenza umana va vissuta come un “cammino verso la propria salvezza”, ora i Riformatori pongono in primo piano l’appello a sentirsi responsabili di come va il mondo e a svolgere in esso un ruolo attivo al servizio di Dio, per costruire un ordinamento ecclesiastico e politico che sia conforme alla sua volontà e finalizzato alla sua gloria.

Secondo il Puritanesimo, infatti, i credenti non hanno solo la responsabilità di riformare la chiesa, ma anche di fondare una società politicamente rinnovata, accogliendo la sfida di “mettere a posto il mondo”, così che la scommessa vocazionale si gioca in questa contrapposizione tra il disordine presente e il progetto di un nuovo ordine. Ed è qui che sorge l’invenzione politica del patto come strumento per dare origine a una nuova forma di Stato. Nella nuova prospettiva, la società politica non deriva dalla tendenza naturale degli uomini ad aggregarsi, ma sorge da un atto di volontà comune ed è il prodotto di un libero patto con cui gli individui procedono alla formazione delle istituzioni politiche e alla definizione delle norme regolatrici della società.

Come ha ossevato Walzer nel suo libro “Esodo e rivoluzione” (1985), i puritani traspongono sul piano politico lo schema biblico dell’Alleanza e aprono la strada alla concezione contrattualistica tipica dei grandi teorici del pensiero politico moderno (da Hobbes a Rousseau). Questa concezione  contiene l’idea rivoluzionaria che gli individui nascono uguali e che ogni uomo è dotato di diritti innati —il primo dei quali è quello della libertà — che lo Stato non solo non può calpestare, ma che, anzi, ha l’obbligo di proteggere.

A questa istanza egualitaria è legata la prima, esplicita formulazione del “diritto naturale di proprietà dell’individuo su se stesso”, il quale fa valere la sua libertà fino ad affermare con Overton, uno dei leader dei Livellatori, che “a ogni essere vivente è naturalmente data una proprietà individuale che nessuno ha il diritto di violare o di usurpare, perché io sono io in virtù del mio essere proprietario di tale io”. Su questa rivendicazione dell’autonomia individuale viene avviato il grande progetto moderno della trasformazione da suddito a cittadino e, nello stesso tempo, si traccia il confine invalicabile del potere politico, che cessa di essere assoluto e arbitrario e diventa un potere ristretto nei limiti delle leggi fissate dal patto, proprio perché esso non ha altra fonte di legittimazione all’infuori del consenso dei singoli.

Questo nuovo criterio di legittimazione dal basso si salda con il concetto cardine dello Stato liberale prima, e dello Stato democratico poi, vale a dire il principio della sovranità popolare, da cui deriva l’autorità dello Stato, così che, come afferma il teorico del liberalismo John Locke, in linea con l’impostazione puritana, “se i detentori del potere politico violano i diritti fondamentali della persona, essi si pongono in stato di guerra con il popolo, il quale è con ciò sciolto da ogni ulteriore obbedienza e… ha il diritto di riprendere la sua libertà originaria”.

Un riscontro puntuale del progetto puritano della società politica è offerto da uno dei testi più significativi della prima rivoluzione inglese: quel “Patto del popolo” redatto dalla corrente puritana dei Livellatori (“Levellers”) nel 1647, e poi più volte rimaneggiato. È un testo che traccia un progetto di costituzione politica di tipo democratico che rappresenta già, per dirla con lo storico Giorgio Spini, “qualcosa di molto simile alle venture dichiarazioni dei Diritti dell’uomo della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese del Settecento”.

Il “Patto del popolo”, infatti, definisce il concetto di individuo indipendente, dotato di diritti naturali che lo Stato ha il compito di garantire, quali il diritto alla vita, alla proprietà e alla libertà. Quest’ultimo si traduce concretamente nel diritto di voto assegnato a ogni cittadino, e nel diritto di ciascuno di far valere la sua libertà di coscienza, senza essere costretto da alcun potere politico a comportamenti contrari alle sue convinzioni personali; questo primato della coscienza apre la via ad una società laica e pluralista, dove l’autorità politica si impegna a riconoscere piena libertà a ognuno in materia di fede.

Dato che la sovranità appartiene al “libero popolo d’Inghilterra”, al quale spetta l’istituzione di ogni potere legale mediante libere elezioni a suffragio universale, si afferma che “la suprema autorità d’Inghilterra sarà e risiederà d’ora avanti in una Rappresentanza del popolo”, vale a dire la Camera dei Comuni. In questo intreccio tra riconoscimento dei diritti individuali, principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini e legittimazione del potere politico tramite la sovranità popolare, si profila quella forma di democrazia rappresentativa che costituisce una delle più grandi conquiste della modernità.

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