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Tunisia

Chi vincerà e chi perderà con la fine del governo Conte

La crisi del governo Conte analizzata da Gianfranco Polillo 

C’è un modo meno traumatico per uscire dall’impasse politico in cui è cacciata la maggioranza? Difficile passare per la cruna dell’ago, ma se c’è uno spiraglio, questo difficilmente può coincidere con il definitivo reclutamento dei “responsabili”. A parte ogni altra considerazione, sarebbe un rospo che il Pd (e non solo) non potrebbe ingoiare. La definitiva dimostrazione di una secolarizzazione della politica, dopo anni di orgogliosa affermazione di una presunta diversità. Che nemmeno la retorica di Goffredo Bettini sarebbe in grado di giustificare.

Per i 5 Stelle, invece, sarebbe il definitivo smarrimento. Quelli che, in nome della loro purezza giacobina, volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Ed ora si trovano a puntare sui figliocci di Scilipoti. Con tutto il rispetto per quest’ultimo, che almeno aveva avuto il buon gusto di non voler mai nascondere la sua disponibilità a servire più padroni. Forse le élite dei due partiti potrebbero non aver remore a superare possibili crisi di coscienza. Parigi val sempre una messa: per ricordare Enrico IV re di Francia. Ma non potrebbero sfuggire alle conseguenze politiche di una simile scelta.

Non sarebbe la vittoria di Giuseppe Conte nei confronti di Matteo Renzi, che da questa confusa situazione avrebbe tutto da guadagnare, ma la sconfitta dei due leader di partito — Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti — di colpo trasformati in sub-comandanti. Con un’aggravante: l’essere stati costretti, per difendere il Presidente del consiglio pro-tempore, a passare sopra a principi che, fino a ieri, erano considerati non negoziabili. Non si era mai visto, nemmeno nella Prima Repubblica.

Qual è allora l’alternativa? Nella tradizione italiana, i conflitti all’interno delle coalizioni di governo, sono state sempre affrontati con lo strumento della verifica. Era il mezzo per ridiscutere di tutto: di programmi, strategie, nomine ed organigrammi di governo. Non esistevano santuari inviolabili. Anzi la contendibilità della Presidenza del consiglio era il piatto forte della discussione. Se la trattativa aveva successo si apriva una nuova fase, altrimenti non rimaneva che la crisi. In genere: crisi extraparlamentare, come lamentavano i puristi della Costituzione. Ma, a guardar bene, essa aveva una sua logica sostanziale.

La verifica era infatti appannaggio esclusivo delle delegazioni di partito, che traevano la loro forza e legittimazione dall’articolo 49 della Costituzione. Forza e legittimazione che riduceva l’eventuale successivo passaggio in Parlamento ad una semplice formalità. Già nella composizione delle delegazioni, che partecipavano alla trattativa, c’era il segno incombente della possibile novità. In genere, infatti, non vi partecipavano gli esponenti di governo, a meno che non avessero anche responsabilità di partito. Benché meno il Presidente del consiglio in carica. Essendo tutti oggetto della verifica.

La logica di allora non è cambiata. Certo i tempi sono diversi, ma le regole della Costituzione sono le stesse. Alla luce di queste premesse é difficile pensare che Giuseppe Conte possa assolvere al ruolo di mediatore nel gestire la partita. Le decisioni politiche spettano ad altri soggetti, che devono essere posti in grado di decidere in piena libertà. Questo significa forse che Conte debba essere già considerato fuori? Naturalmente no. Ma il suo eventuale reincarico non può essere scontato, ancor prima che inizi la trattativa. Quasi esistesse una pregiudiziale intorno alla quale far ruotare tutto il resto. Fosse questa la situazione, non si tratterebbe solo di un Conte ter, ma, visti gli equilibri parlamentari, della nascita di una forte candidatura alla successione di Sergio Mattarella.

Cose d’altri tempi? Mica tanto. Nella Seconda Repubblica, ad esempio, Giulio Tremonti, quand’era ministro dell’Economia, ebbe un duro scontro con Gianfranco Fini, che allora era il leader di Alleanza nazionale. Scontro che si risolse con le dimissioni del primo. Lo stesso Silvio Berlusconi, che in quegli anni portava il suo ministro dell’Economia su un palmo della mano, fu costretto a cedere. Al mancato gradimento da parte di una componente della maggioranza nei confronti di un singolo ministro, per quanto questo fosse considerato indispensabile, non ci poteva essere difesa. E così Giulio Tremonti fu sostituito da Domenico Siniscalco che — ironia della sorte — lui stesso aveva nominato alla direzione del Tesoro.

Come si vede, la vitalità delle regole costituzionali prescinde dal susseguirsi dei cicli politici. Né queste regole possono essere aggirate minacciando, come ha fatto più volte Giuseppe Conte, il ricorso diretto in Parlamento. Scelta che non può, anche volendo, bypassare il momento di una verifica collegiale da parte delle forze che compongono la maggioranza. Perché tentare la via parlamentare, senza averne prima il consenso diventa una missione impossibile. Che può essere facilmente stoppata dal ricorso alle procedure interne, che regolano i rapporti tra i diversi organi costituzionali. Quindi, attenti a non tirare troppo la corda (Do you remember Romano Prodi e Franco Turigliatto?) in una sola mossa sbagliata si può perdere tutto. Oltre la sedia di Palazzo Chigi.

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