I lettori di ItaliaOggi sanno che questo giornale si è schierato più volte contro il cosiddetto Trattato del Quirinale tra Italia e Francia. In un editoriale di un anno e mezzo fa (19 febbraio 2020), il direttore Pierluigi Magnaschi scrisse che il trattato, per come è stato pensato, «ridurrebbe l’Italia a un paggetto di Macron». E Carlo Pelanda, analista autorevole di scenari internazionali, ha ribadito la stessa contrarietà più volte, fino a sostenere (2 luglio 2021) che «questo trattato non si deve fare» in quanto «la collocazione internazionale dell’Italia più remunerativa è un’alleanza rafforzata con gli Stati Uniti, con una postura equilibrata tra Francia e Germania, collaborativa con ambedue e che escluda relazioni privilegiate con uno dei due». Una contrarietà motivata non da pregiudizi, ma da fatti concreti.
Basti ricordare che la Francia, campione mondiale di sovranismo, proprio mentre si discutevano le bozze di questo trattato di amicizia, mandava a monte la fusione tra Fincantieri e i fallimentari Cantieri francesi dell’Atlantico nel settore delle costruzioni navali, un’operazione di portata mondiale, in cui sarebbe stato il gruppo italiano a prendere le redini del comando. Cosa inaccettabile per Emmanuel Macron, che vi ravvisava uno sfregio per la presunta grandeur francese. E il governo italiano di allora, guidato da Paolo Gentiloni, Pd, favorevole fin dall’inizio al Trattato del Quirinale, i cui preparativi risalgono al 2018? Zitto e mosca.
Per la cronaca, va ricordato che il governo gialloverde (M5s-Lega) di Giuseppe Conte, subentrato a quello di Gentiloni, tra le prime mosse, pose in soffitta la bozza del Trattato del Quirinale. Era l’epoca dei Gilet gialli in Francia e di Luigi Di Maio, vicepremier, che li omaggiò di persona con una visita, provocando una crisi diplomatica con Parigi, che ritirò l’ambasciatore da Roma. Una crisi rientrata soltanto grazie alla mediazione del Quirinale, a cui è seguito il collaudato trasformismo grillino, che ha in Conte e Di Maio i massimi interpreti: il primo pronto ad allearsi con la qualunque pur di non mollare la cadrega, il secondo ieri ostile a Macron e oggi alleato, pronto a inginocchiarsi.
Nonostante questi precedenti, nelle ultime settimane la firma del Trattato del Quirinale sembra ormai vicina, l’evento politico clou del prossimo autunno. La conferma del cambio di passo è stata data dallo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della sua visita di Stato a Parigi il 5-6 luglio scorso, la prima all’estero dopo la pandemia. Una visita che non solo ha messo una pietra tombale sugli incidenti diplomatici con Macron, ma ha confermato, con un discorso di Mattarella alla Sorbona, la disponibilità dell’Italia a firmare il trattato entro l’anno.
A questo cambio di passo, secondo Politico, che gli ha dedicato un’ampia ricostruzione, avrebbe contribuito non poco la sostituzione del governo Conte 2 con quello di Mario Draghi, personaggio tra i più rispettati e autorevoli in Europa dopo la sua impeccabile gestione della Banca centrale europea. Non è un mistero che Draghi sia percepito come l’unico in Europa in grado di raccogliere la leadership di Angela Merkel. E allearsi con Draghi, per Macron, è diventato un obiettivo primario di immagine, da spendere a proprio vantaggio nella corsa all’Eliseo del prossimo anno. Da qui la convinzione di Politico che “una nuova coppia di potere è in lizza per la leadership in Europa, solo che questa volta la metà non è tedesca”.
In attesa di conoscere chi sarà il successore di Merkel, e consapevoli che Armin Laschet, Cdu, il candidato più quotato, avrà bisogno di tempo per conquistare una leadership europea, Macron e Draghi «si stanno facendo avanti per riempire un vuoto», ovviamente con stili diversi, ma con importanti obiettivi comuni in Europa. E il Trattato del Quirinale servirebbe proprio a questo.
«Entrambi sono ex banchieri d’investimento» che vedono un’Unione europea più audace e più rapida come antidoto ai mali domestici», scrive Politico. E l’agenda comune, se davvero il Trattato del Quirinale sarà modellato come il Trattato dell’Eliseo del 1963 che diede il via al patto franco-tedesco e all’obbligo di consultazioni preventive tra i due paesi, prevede di avere il maggiore impatto proprio sul futuro dell’Ue, soprattutto sulle regole in materia di spesa pubblica (3% deficit-pil, 60% debito-pil), che devono essere riviste entro l’anno prossimo. Mattarella, durante la visita a Parigi, ha invitato l’Ue a continuare a «emettere debito comune». Draghi ha poi fatto eco a quell’appello, in sintonia con Macron, convinti entrambi che «il quadro fiscale Ue sia troppo vincolante». E il ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire ha chiesto più volte che l’Ue renda «permanete il debito comune per la ripresa», ovvero che il Recovery Plan non sia una tantum, come pretendono la Germania e i paesi frugali suoi alleati.
Per quanto sgradito a questi ultimi, si va costituendo in Europa un nuovo asse per la gestione dell’economia, con Italia e Francia come capifila. Lo si è visto nella Bce, dove a maggioranza (con il voto contrario della Germania) è stata approvata un’innovazione importante, l’inflazione asimmetrica (cioè, anche sopra il 2%), premessa di un’ulteriore estensione della politica monetaria accomodante, per sostenere la ripresa post-pandemia. Replicare lo stesso indirizzo a Bruxelles sarà meno facile, visto che nell’Ue serve l’unanimità per cambiare i trattati. Ma la politica è l’arte del possibile, e il Trattato del Quirinale, se scritto bene, senza margini di prevaricazione della Francia sull’Italia, e con un gestore competente come Draghi, vi potrebbe rientrare a pieno titolo, senza fare dell’Italia un paggetto della Francia, come temono Magnaschi e Pelanda.
Ovviamente, poiché il testo non è ancora noto, il condizionale è d’obbligo, pronto a ricredermi.
Articolo pubblicato su italiaoggi.it