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Craxi

Chi ha ragione tra Martelli e D’Alema su Craxi. Il commento di Polillo

Nella polemica che si è accesa tra Claudio Martelli e Massimo D’Alema, a proposito di Bettino Craxi, è difficile non dare ragione al primo. Il commento dell'editorialista Gianfranco Polillo

Nella polemica che si è accesa tra Claudio Martelli e Massimo D’Alema, a proposito di Bettino Craxi, è difficile non dare ragione al primo. Sostiene Martelli, dalle pagine di Critica sociale, la rivista che fu fondata da Filippo Turati (130 anni di storia): “Ha fatto bene Bettino Craxi a fuggire in Tunisia”. Se fosse rimasto in Italia, aggiunge, “l’avrebbero incarcerato, forse sarebbe morto o lo avrebbero ucciso. Lo Stato di diritto non c’era più, la gente aveva la bava alla bocca. Al Raphael fu linciato, perché di questo si trattò, quando gli lanciarono addosso le monetine. E lui aveva paura di fare la fine di Moro”.

Non gli fu permesso di rientrare in Italia, nemmeno quando la malattia lo stava divorando. Massimo D’Alema, che allora era presidente del consiglio, se ne lavò semplicemente le mani. Si limitò – sempre secondo la versione di Martelli – “a chiedere il permesso a Borrelli e agli altri magistrati che risposero “Ok, lo piantoneremo in ospedale””. Come se questa fosse stata una proposta accettabile. C’erano, naturalmente, mille altri modi per intervenire, aggirando il diktat della magistratura militante. Nella storia dei servizi segreti italiani, ci si è mossi per molto meno. E certo Bettino Craxi forse non valeva di più, ma certamente non valeva di meno di tanti sprovveduti che si muovono ancora oggi in situazioni di rischio. Per essere poi salvati dalla cavalleria.

Ma Bettino – si potrebbe obiettare – era un ex presidente del Consiglio che aveva preferito la via dell’estero, piuttosto che difendersi “dentro il processo”. Uno scandalo nello scandalo. Un precedente pericoloso da fare accapponare la pelle. Comunque musica per le orecchie di coloro che gli attribuivano la colpa di aver voluto determinare un mutamento genetico nella vecchia cultura socialista. Sciocco dogmatismo da un lato, crassa ignoranza dei fatti storici dall’altro. Ed è su questi che vale la pena intervenire, essendo il primo di tutta evidenza, nella lunga crisi che travaglia il mondo post-comunista.

Bisogna ritornare indietro di più di un secolo e ricordare i veleni che accompagnarono il fallimento della Banca Romana, dopo la grande speculazione edilizia che aveva cambiato il volto di tanti quartieri romani. A partire da Prati. Sulla scena politica due acerrimi rivali: Francesco Crispi e Giovanni Giolitti. Il primo, appartenente alla sinistra storica, convinto mazziniano, ma soprattutto dotato di un carattere autoritario, pronto a valersi di tutti i mezzi, nell’esercizio del potere. Com’era risultato evidente durante il periodo della sua presidenza a Palazzo Chigi. Il secondo, più in sintonia con la vecchia tradizione di Cavour. Liberale, ma anche più che disponibile a seguire la strada tracciata da quest’ultimo con il connubio e poi da De Pretis con il trasformismo. Comunque due caratteri opposti. Destinati ad interpretare fasi diverse della vita politica italiana.

Nel reciproco coinvolgimento nel fallimento della Banca Romana, fu soprattutto Crispi a cercare di incastrare il suo rivale. Lo denunciò, infatti, in tribunale, accusandolo di uso privato di documenti d’ufficio. Giolitti eccepì, con piena ragione, affermando che a norma di Statuto, in quanto senatore, poteva essere giudicato solo dal Senato, costituito in Alta Corte. Sennonché il tribunale, al quale Crispi si era rivolto, respinse l’eccezione. Naturalmente Crispi avrebbe voluto che Giolitti si difendesse “dentro il processo”. Benché le garanzie di indipendenza fossero inesistenti.

Giolitti, invece, scelse una strada diversa. Per evitare l’arresto, partì per Berlino, con la scusa di andare a trovare sua figlia, che viveva da tempo in quella città. Vi rimase per il tempo necessario. Finché la Corte di cassazione gli diede ragione, annullando la sentenza del Tribunale, che Crispi aveva notevolmente manipolato. Così la rivincita di Giolitti fu completa. La Camera dei deputati, infatti, dopo quella sentenza riesaminò il problema della sua incriminazione, convenendo, circa l’inconsistenza delle accuse avanzate. Nel frattempo, tuttavia, erano passati più di tre anni. Che avevano avvelenato il Paese è gettato nel discredito tutta la sua classe politica.

Forse sarebbe stato bene che i principali protagonisti della vicenda Craxi, avessero tenuto a mente quel lontano episodio. Piuttosto che consegnarsi mani e piedi al pool di “Mani pulite”. La sofferta vittoria di Giolitti aprì per l’Italia di allora il più forte e prolungato periodo di benessere e di sviluppo. Nel secolo successivo, invece, l’aver puntato tutto sulla denuncia di un sistema di finanziamento pubblico della politica, certamente, poco edificante, ha fatto da schermo alla comprensione delle ragioni più profonde, che portarono alla crisi del ‘92. Che comunque si sarebbe verificata, anche se a dirigere il Paese, fosse stata la migliore e più onesta squadra di questo mondo. Per il semplice fatto che non fu l’eccesso di corruzione, presunto o reale, ad affossare la nostra moneta. Ma ragioni molto più complesse, che ancora oggi, a causa di quel fumo, non si riesce ad individuare, come invece dovrebbe essere.

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