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Migranti

Chi ha ragione e chi ha torto su Sea Watch

Il caso della Sea Watch (che si muove come una nave corsara), i compiti evanescenti dell'Olanda, le ragioni di Matteo Salvini e il ruolo dell’Italia nel commento di Gianfranco Polillo

Può un sentimento di umana pietà entrare in conflitto con regole consolidate da una lunga tradizione storica? Se si guarda al singolo episodio – quei migranti sballottati dalle onde sulla tolda della Sea Watch – la reazione non può che essere: salviamoli. Diamo loro un porto sicuro. E mettiamoci a posto la coscienza. Cosa, indubbiamente buona, ma anche giusta?

Quale sarà l’effetto ultimo di questo intervento umanitario? Scoraggerà altri tentativi? Contribuirà a tagliare le unghie ai trafficanti di carne umana? O non si tradurrà in un nuovo incentivo per i prossimi che tenteranno la triste avventura? Questo è l’interrogativo di fondo che richiede una risposta. Che non viene da chi, preso anche da un comprensibile senso di colpa, è disposto a tutto, pur di salvare vite umane.

Non siamo di fronte ad un caso eccezionale. Un mercantile che si imbatte, in acque internazionali, con un’imbarcazione alla deriva e in procinto di affondare. Salva i naufraghi e li conduce nel primo porto sicuro, come prescrivono le leggi del mare, rese cogenti dai Trattati internazionali. In questo caso, negare loro assistenza ed il relativo sbarco, non sarebbe solo un atto disumano, ma un vero e proprio reato, di cui rispondere nelle sedi deputate. Alcune Ong, invece, svolgono un’attività sistematica. Fanno rotta verso i luoghi di imbarco. Calcolano le poche miglia che i gommoni dei migranti possono percorrere, prima di affondare. E lì li aspettano, per effettuare il necessario trasbordo.

Difficile negare di essere di fronte a un’attività organizzata, che oggettivamente collude con quella di coloro che gestiscono il traffico di uomini, donne e bambini. Chi si imbarcherebbe, altrimenti, su un mezzo di fortuna se non avesse la certezza, o almeno la speranza, di un salvataggio organizzato?

Nella storia della marineria, le navi corsare sono sempre esistite. Erano imbarcazioni che operavano sulla base di un’autorizzazione formale – la cosiddetta “lettera di corsa” – che consentiva loro di perseguire i propri fini, con la copertura dei relativi Governi nazionali. Ma senza coinvolgerli direttamente nelle relative operazioni. Potevano attaccare i convogli concorrenti. Depredarli. O addirittura affondarli. Senza sanzione alcuna, diversamente da chi non aveva questa patente, una volta tornati alla base.

Nel XVI e nel XVII tutte le potenze marinare – Spagna, Francia, Olanda ed Inghilterra – utilizzarono questo strumento per difendere la propria zona di influenza. In quei bracci di mare, alle navi battenti bandiera diversa non era garantita alcuna libertà di circolazione. Venivano assalite e derubate. Atti di una guerra non dichiarata, ma affidata esclusivamente all’iniziativa di privati che, grazie al salvacondotto della “lettera di corsa”, non potevano poi essere puniti nel proprio Paese. Avendo agito, non in nome, ma per conto di Sua Maestà britannica o di sua Altezza il Re di Francia.

Nei secoli successivi cambiarono le forme, ma non lo schema di gioco. Nella Grande guerra, sia i tedeschi che gli italiani utilizzarono navi corsare. Avevano l’aspetto di innocui mercantili. Una semplice copertura, che mascherava vere e proprie navi da guerra, in grado di affondare i convogli nemici – specie i cargo merci – oppure realizzare operazioni di intelligence. Le tre navi corsare italiane erano di proprietà della Società Anonima di Navigazione Alta Italia, ma rispondevano agli ordini dell’Ammiragliato.

La Sea Watch batte bandiera olandese. Ma, di fatto, si comporta come una di quelle navi corsare, del bel tempo andato. Non si sa se abbia sottoscritto particolari regole d’ingaggio. Nè quali siano i rapporti effettivi con il Paese che le ha concesso la licenza. Ma la vigilanza sui suoi comportamenti in mare spetta all’Olanda. E può scattare solo nel momento in cui quei migranti sbarcano sul proprio territorio nazionale. Altrimenti qualsiasi altro intervento resta precluso. Legittimato dalla situazione di emergenza alla quale la nave ha dovuto far fronte.

Si comprende allora la reazione di Matteo Salvini. Come ministro della Repubblica, al di là del suo sentimento personale, non può rendersi complice di un gioco di prestigio, ai danni dell’Italia. Nè tollerare che si possa continuamente a tirare il sasso e poi nascondere la mano. È giunto il momento in cui è necessario accertare le diverse responsabilità. Che l’Olanda faccia chiarezza. Se condivide quell’operato se ne assuma, per intero, le responsabilità. Se è di diverso avviso, impedisca a quell’imbarcazione di continuare nelle sue scorrerie, seppure motivate da nobili sentimenti.

Ciò che, invece, l’Italia deve fare è garantire la necessaria assistenza affinché la rotta verso il Paese di destinazione si svolga nelle migliori condizioni possibili. Deve fornire tutta l’assistenza necessaria in campo sanitario e logistico. Ma non può cedere sul resto. Risolverebbe un problema contingente, ma contribuirebbe a farne nascere altri cento.

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