Tutto si può dire di Massimo D’Alema tranne che difetti di coerenza. I più anziani lo ricordano quando, ancora in tenera età manifestava, diciamo, con una certa determinazione, contro gli spensierati avventori della Bussola di Viareggio. Oggi, capelli e baffi bianchi, marcia invece a Pechino, a fianco di Putin, Kim Jong-un (Corea del nord), Lukashenko (Bielorussia) e Pazeshkian (Iran) che insieme rappresentano l’internazionale della morte, per celebrare la grande potenza militare cinese. E mentre sfilano carri armati d’ultima generazione, missili intercontinentali, cannoni a raggi laser e mille altri ordigni distruttivi, che non richiedono nemmeno la presenza dell’uomo nella loro gestione, si innalza nel cielo un canto di pace.
“Viviamo in un momento difficile nelle relazioni internazionali. Io spero e confido che qui da Pechino venga un messaggio per la pace – ha detto l’ex premier – per la cooperazione e per il ritorno a uno spirito di amicizia tra tutti i popoli e per porre fine alle guerre che purtroppo insanguinano in modo così tragico diversi Paesi del mondo”. Senza per altro dimenticare “la lotta eroica del popolo cinese così importante non solo per la Cina ma per tutta l’umanità per la sconfitta del nazismo e del fascismo”. Elogio forse eccessivo, rispetto ad una storia che Xi Jinping cerca di riscrivere ad uso e consumo delle proprie ambizioni, ma che non trova riscontro nella realtà dei fatti.
Si potrebbe dire che, ovviamente, Massimo D’Alema, da libero cittadino, può fare quello che vuole. Sennonché questo equivarrebbe a negare la valenza di un passato vissuto nel rappresentare una parte dell’Italia, come segretario del PDS e dell’intera Nazione, in quanto Presidente del Consiglio. Qualcosa che rimane addosso come una seconda pelle. E della quale è difficile disfarsi. Tanto più che solo in virtù di questo riconoscimento é scattato l’invito a partecipare alla manifestazione di Pechino: non come semplice spettatore, confuso tra la folla plaudente, ma come personaggio con uno standing adeguato.
Resta l’interrogativo di sapere da chi era partito l’invito. Era stato il Partito comunista cinese a formularlo? Od era in quota degli altri convitati? Putin, Lukashenko? Gli indizi fanno pensare alla prima ipotesi, stante una frequentazione più assidua con il Celeste Impero. Secondo quanto riportato dai media l’ex premier è presidente della società DL & M Advisor, attiva nel settore delle relazioni strategiche tra Europa e Asia, e ha più volte partecipato a forum internazionali promossi da enti cinesi. Inoltre, figura tra i fondatori della Silk Road Wines, un’azienda vinicola italiana che ha ricevuto visibilità nei mercati asiatici. Secondo quanto riportato da Domani e Il Foglio, la sua cantina ha beneficiato anche di fondi pubblici, inclusi finanziamenti europei, per iniziative promozionali in Cina e Corea del sud.
Ovviamente nulla da eccepire. Anzi, anche in questo caso, una dimostrazione di coerenza. Era il 1999 e Massimo D’Alema era presidente del Consiglio, quando l’avvocato Guido Rossi sosteneva che a “Palazzo Chigi c’era l’unica merchant bank dove non si parlava inglese” Era in atto allora la scalata della Telecom da parte di Colaninno, della razza padana di Gnutti, con la partecipazione di Mps e delle coop rosse di Unipol. Storie passate. Oggi è meglio occuparsi di consulenze e di vino.