skip to Main Content

Giorgetti

Chi ha davvero in mano il boccino della crisi

Che cosa succede fra Mattarella, Draghi e Conte. I Graffi di Damato

Il partito di Conte -come lo chiama Luigi  Di Maio non so se più con sarcasmo o con troppo ottimismo, presumendo che l’ex presidente del Consiglio controlli davvero ciò che resta del MoVimento 5 Stelle – ha sequestrato anche questa lunga vigilia della verifica parlamentare di mercoledì prossimo. Che è il giorno in cui Mario Draghi, su esplicita indicazione del Quirinale, si presenterà alle Camere per esporre le ragioni delle dimissioni da presidente del Consiglio respintegli dal capo dello Stato.

Sergio Mattarella non è del tutto convinto che il governo non disponga più della sua maggioranza originaria. Ne vuole comunque una conferma chiara in Parlamento prima di decidersi, probabilmente e finalmente, a scioglierlo e a mandare gli italiani alle urne in autunno, per la prima e significativa volta nella storia della Repubblica, dove finora si è sempre votato in primavera, o sulla sua soglia.

C’è sempre una prima volta in tutte le storie. Lo fu, quattro anni fa, all’inizio di questa legislatura, anche quella -ammessa dallo stesso Mattarella- di affidare la guida del governo a uno come Conte: professore di diritto, per carità, avvocato con clientela molto abbiente, pur col vezzo di considerarsi al servizio del “popolo”, ma completamento digiuno di politica e amministrazione. E se ne sono visti francamente gli effetti, per quanti aiuti avesse ricevuto l’improvvisato presidente del Consiglio dallo stesso Mattarella e collaboratori al Quirinale nelle due esperienze vissute a Palazzo Chigi: la prima con una maggioranza gialloverde e la seconda giallorossa, o giallorosa volendo salvaguardare i colori della Roma calcistica.

Sicuro non di averla fatta grossa -come gli avrebbe detto la buonanima di Amintore Fanfani invitandolo a “coprirla”- ma addirittura di avere “il pallino” o di “guidare il gioco”, secondo le parole attribuitegli dal giornale che più lo sostiene, cioè Il Fatto Quotidiano, Conte sta cercando a suo modo di togliere l’ultima erba sotto i piedi dell’odiato Draghi: l’intruso che un anno e mezzo  fa gli soffiò, diciamo così, la Presidenza del Consiglio.

A suo modo, dicevo: correndo e frenando, dicendo e smentendo, gettando la pietra e nascondendo la mano. In ballo questa volta sono le dimissioni dei ministri pentastellati prima di mercoledì per chiudere il cerchio della fiducia negata al governo sul decreto degli aiuti alle famiglie e imprese, neppure votato d’altronde alla Camera, dove tuttavia la fiducia gli era stata accordata grazie a votazioni separate consentite da un regolamento un po’ pasticciato. Ma i ministri, e neppure i sottosegretari, sono tutti disposti a soddisfare Conte, pronti anzi a seguire Di Maio nei suoi nuovi gruppi parlamentari: insieme per il futuro.

Tutto il resto in questa crisi congelata o sospesa come una partita di calcio in attesa dei tempi supplementari -credetemi- è posticcio: dalle pressioni del Pd di Enrico Letta per il recupero in extremis di una maggioranza senza la quale diventa davvero un camposanto, come dicono da opposte visioni Romano Prodi e Silvio Berlusconi, il cosiddetto campo largo con le 5 Stelle, o ciò che ne rimane, ai contrasti nel centrodestra fra chi vuole davvero le elezioni subito e chi invece cerca ancora di ritardarle per non trovarsi, in caso di vittoria, di fronte al problema di sostenere, subire, contrastare la candidatura di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi.

L’onnipotenza attribuitasi da Conte fa diventare paradossalmente posticcia persino l’eco internazionale delle dimissioni di Draghi, nel bel mezzo della guerra in Ucraina e dei suoi riflessi geopolitici, economici e sociali. Draghi, secondo la solitamente felice rappresentazione giornalistica che il manifesto sa fare delle situazioni complicate, è tra “le stelle e le strisce”: le stelle cadenti di Conte e le strisce americane di Biden, che fa il tifo per lui in buona compagnia europea.

Back To Top