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Chi e come lavora per un’Eurasia anti Usa. L’approfondimento di Gagliano

Le articolate alleanze per un’Eurasia mirano a consolidare un modello geopolitico multipolare in grado di contenere la proiezione di potenza americana. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano Dal punto di vista strettamente geopolitico la Cina era diventata un importante alleato degli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta con lo scopo di contenere la proiezione della…

Dal punto di vista strettamente geopolitico la Cina era diventata un importante alleato degli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta con lo scopo di contenere la proiezione della potenza sovietica.

Nel gennaio del 1979 erano stati posti in essere i primi rapporti diplomatici con la Cina e in modo particolare con Deng Xiaoping che aveva fatto un viaggio di nove giorni negli Stati Uniti per suggellare la nuova alleanza. Proprio in quell’occasione fu legittimata l’alleanza sino-americana in funzione anti russa.

A partire dagli anni ‘80 e fino al 2000 la Cina, proprio grazie alla partnership con gli Stati Uniti e grazie alla nuova politica estera ed economica posta in essere da Deng, divenne una delle più rilevanti potenze economiche a livello globale.

Ebbene nel 2011 la situazione cambiò completamente al punto che il presidente Obama prese atto che la Cina ormai stava diventando una vera e propria minaccia economica per l’egemonia globale statunitense. Oggi in tutti i documenti relativi alla sicurezza nazionale la Cina viene presentata come una grave minaccia per gli Usa sia nel settore delle telecomunicazioni sia nel settore dei trasporti. Inoltre la modernizzazione della marina viene legittimamente vista dagli Usa come una minaccia alla sua potenza egemonica.

Inoltre la proiezione di potenza cinese che viene posta in essere dalla Bri ha – fra l’altro – consentito alla Cina di acquistare o modernizzare ben 42 infrastrutture portuali in 34 paesi. Sotto il profilo delle analisi delle relazioni internazionali due noti studiosi internazionali e cioè John Mearsheimer e Samuel Huntington hanno non solo esplicitamente sottolineato la pericolosità della Cina ma hanno incoraggiato l’amministrazione americana a reagire in maniera rapida e dura prima che la Cina possa emarginare dal punto di vista geopolitico gli Stati Uniti.

Ebbene se è indubbio che la guerra commerciale posta in essere dal presidente Trump abbia determinato i primi effetti – per esempio Foxconn multinazionale taiwanese che gestisce l’assemblaggio in Cina di Apple e di altri noti marchi dell’elettronica ha posto in essere piani di diversificazione in India e in Vietnam per limitare l’impatto economico negativo della guerra economica in corso con la Cina – le ricadute economiche dello smantellamento delle piattaforme tecnologiche cinesi implicherebbe un processo lunghissimo e dai costi elevatissimi come ebbe modo di osservare nel giugno del 2019 la Camera di Commercio statunitense in aperta polemica con le iniziative di Trump.

Ora, nonostante le evidenti implicazioni economiche, l’attuale presidente degli Usa sta applicando in modo coerente quanto aveva sostenuto nel giugno del 2016, anno nel quale aveva criticato in modo durissimo la politica di globalizzazione americana di matrice liberista che aveva portato all’estero i posti di lavoro, la ricchezza e le fabbriche americane determinando una inesorabile deindustrializzazione e la distruzione della classe media americana.

Inoltre il presidente americano non si era fatto alcuna remora nel denunciare la classe dirigente americana che invece di tutelare gli interessi americani aveva sacralizzato la globalizzazione. In coerenza con questa linea neocolbertista il presidente americano aveva infatti annunciato che gli Usa si sarebbero ritirati dal partenariato transpacifico e avrebbero rinegoziato il Nafta.

Naturalmente la Cina non assumerà un atteggiamento remissivo nei confronti di questa guerra commerciale come dimostra in modo chiaro la presa di posizione del periodico online Global Times che avuto modo di chiarire che la Cina è pronta ad una battaglia sul lungo periodo con gli Stati Uniti.

Veniamo adesso alla Russia altro player fondamentale nello scacchiere internazionale che è in grado di contenere e contrastare l’unipolarismo americano. A partire dal 2017 gli Stati Uniti hanno interpretato il modus operandi dell’Unione Sovietica alla luce della loro dottrina della sicurezza nazionale come finalizzato a ridefinire profondamente gli equilibri del sistema internazionale cercando di attuare una sinergia con la Cina di natura politica, economica e militare per contrastare l’egemonia unipolare americana.

In effetti, a partire dagli anni 90 la Russia ha profondamente rivisto rispetto alla guerra fredda gli obiettivi effettivi della propria politica estera sia grazie alla dottrina primakov sia grazie alla dottrina putiniana. Se la prima sottolineava la necessità che la Russia divenisse una potenza resistente nei confronti dell’ampliamento dell’Alleanza Atlantica ai paesi dell’ex Patto di Varsavia sottolineando la necessità da parte russa di attuare una strategia di contrappeso all’unipolarismo americano realizzando una partnership con l’India e con la Cina, Putin a partire dal 2001 ha concretamente realizzato questo ambizioso obiettivo geopolitico sia attraverso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai sia attraverso l’Unione economica euroasiatica creata ufficialmente nel gennaio del 2015 con lo scopo di integrare l’area euroasiatica e di limitare o contenere quella atlantica.

Ebbene, Putin sta cercando di porre in essere il progetto di una grande eurasia che dovrebbe includere anche soggetti come l’Asean facendo così dell’Eurasia il pilastro geopolitico fondamentale del mondo come aveva indicato lo studioso di geopolitica Mackinder.

Insomma le articolate alleanze con i paesi asiatici ed euroasiatici sono certamente volte a ostacolare l’affermazione del modello unipolare americano e a consolidare un modello geopolitico multipolare in grado di contenere la proiezione di potenza americana.

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