Non ho visto Hold-Up, il documentario francese sul Covid, argomento di dibattiti mediatici animati in queste settimane, prima che sull’infosfera piombasse l’immagine del mascara di Rudy Giuliani. Sebbene sia stato subito colpito da scomunica – ciò che lo rende potenzialmente interessante – non l’ho visto, né lo vedrò, non solo perché non possiedo un “account Instagram” ma soprattutto perché dura tre ore: troppe per chi come il sottoscritto ormai esce prostrato da mezz’ora di esposizione al tg.
Quel che con beneficio d’inventario ho capito leggendo qua e là, è che l’opera è stata finanziata in crowdfunding per la non sensazionale somma di 200 mila euro, che si annuncia come un grande successo mediatico (e quindi, suppongo, anche economico per il produttore), che rispetto al Covid è “negazionista” o “cospirazionista” (fino all’altro ieri in Italia si sarebbe detto “complottista” ma ci si è giustamente adeguati all’uso anglosassone).
Le mie fonti principali sono un articolo del ginevrino Le Temps, una delle bibbie quotidiane del politicamente corretto, e un réportage di Huffington Post, idem come sopra. Il primo ha pronunciato una vera e propria requisitoria che nemmeno l’Espresso di sessantacinque anni fa (“Capitale corrotta, nazione infetta”, qualcuno si ricorda?), il secondo un pezzo decisamente più composto, sia pure col doveroso anatema anti-complottista.
Non ho capito come si articola la macchinazione complottista di Hold-Up: “documentario complottista” suona lievemente contraddittorio, la cosa andrebbe quanto meno spiegata: è una collezione di falsi? è pieno di mezze verità? seleziona in modo tendenzioso le circostanze che “documenta”? E’ una sapiente mistura dei tre generi letterari di cui sopra? Capisco che fare queste domande e aspettarsi risposte specifiche è un’ingenuità: se si entra nel merito, non c’è più la scomunica ma un’analisi seguita da un’opinione: tutto un altro effetto, come sostituire un caffè ristretto con la camomilla.
Prima di venire irreparabilmente frainteso, devo precisare: non escludo affatto che tutta l’operazione di cui si sta parlando finisca per rivelarsi un’abile e fortunata (è necessario aggiungere “spregiudicata”?) speculazione. Il fatto poi che il documentario di Pierre Balmérias, sia stato accolto con entusiasmo da personaggi dalla celebrità un po’ appannata, corrobora la sensazione di un hold-up nel senso proprio di rapina, cui – senza fare processi e nemmeno indagini preliminari delle intenzioni di nessuno – ”la fatwa” pronunciata da autorevoli organi di informazione oggettivamente garantisce visibilità.
Lasciamo quindi il documentario complottista e il suo autore al loro destino.
C’è però questo uso smodato del termine “complottista” che merita una riflessione. L’argomento avrebbe bisogno di interpreti della contemporaneità come Umberto Eco il quale però non c’è più già da tempo e ha lasciato – mi scuso per la frase fatta, ma per me è pura verità – un grande vuoto.
In astratto, interdire l’uso dello schema concettuale del complotto è un non senso: una volta, quando la tradizione cattolica (parlo dell’Italia) non era ancora stata rimossa dal sentire comune, c’era un modo di dire popolare che suonava: “forse che Gesù Cristo è morto di freddo?”. Analoga domanda si potrebbe fare sulla fine di Giulio Cesare ma, senza farla troppo lunga, limitiamoci a dire che la storia umana è innegabilmente intessuta di complotti. Del resto non si capisce perché mai tutti gli stati spendano miliardi di dollari, e occupino milioni di persone in quello che una volta si chiamava “controspionaggio”, se non in funzione dell’esigenza esistenziale di smascherare i complotti del nemico e ordire quelli della propria parte. In Italia poi vantiamo addirittura un ateneo che si occupa esclusivamente di queste materie.
Nel mondo dei media la relazione con l’idea del complotto è sempre stata contraddittoria, almeno in apparenza. In generale, l’atteggiamento verso chi li denuncia ad alta voce è di diffidenza, e non senza ragione perché se è vero che complotti esistono, esistono anche mitomani dai quali è utile proteggersi. Indro Montanelli parlava di “dietrologie” con fastidio un po’ blasé, ma poi strizzando l’occhio ai lettori osservava che il nome di Giulio Andreotti affiorava sì in tutti i misteri d’Italia, ma senza che mai si fossero trovate le impronte digitali. Più che rifiutare per principio l’idea del complotto, i professionisti dell’informazione sono inclini a privilegiare la “narrazione” dei complotti che, per una qualche magica ispirazione, scoprono loro o i loro mentori (le “fonti”), e a gettare nel cestino della carta straccia quelle che tentano di emergere dal basso. Rivendicano l’esclusiva della certificazione di autenticità del complotto e, dal loro punto di vista, è rivendicazione del tutto comprensibile: si tratta di tenere ben salde le mani sui rubinetti della comunicazione sociale, che in fin dei conti è il loro mestiere.
Resta però che oggi l’uso dilagante dell’accusa di “complottismo” per screditare qualsiasi voce dissonante non è solo, né principalmente, un modo per proteggere l’esclusiva degli addetti all’informazione in materia di “riconoscimento ufficiale” dell’esistenza di un complotto, esclusiva che ormai nessuno osa pubblicamente contestare (mi ostino a non considerare “pubblico” quanto disordinatamente accade nel mondo dei social media): è piuttosto un comodo espediente per scansare la fatica di una verifica. Detto ancora più esplicitamente: non serve più solo a fare largo, attraverso la rimozione delle teorie “complottiste” dallo spazio pubblico legittimo, alle versioni “autorizzate” dei fatti, e nemmeno a sgombrare il terreno da congetture palesemente cervellotiche (che ininterrottamente germogliano nei social), ma serve non di rado agli addetti all’informazione per risparmiarsi, con una sommaria scomunica, il fastidio dell’approfondimento di ipotesi che circolano e che presentano l’irritante caratteristica di divergere da quelle già “vendute” e prese per buone nello spazio pubblico. Conformismo da una parte e pigrizia dall’altra.
Benché si tratti di un atteggiamento che ha una sua utilità, come contrappeso all’accanimento dialettico e inquisitorio che si è diffuso negli ultimi decenni, mi sembra che insieme al catechismo del politicamente corretto, la pratica di bandire indiscriminatamente dal discorso pubblico, grazie allo stigma del negazionismo e/o complottismo, qualunque ipotesi divergente dalle “verità rivelate” abbia effetti ben più ampi e non necessariamente positivi: più che moderare l’accanimento inquisitorio rischia di far perdere a tutti e quindi anche agli addetti all’informazione la capacità di essere curiosi e di pensare – almeno di tanto in tanto – con la propria testa, una “immunità di gregge” che il povero Boris Johnson se la poteva sognare. Per fare un esempio molto concreto, lo stigma trasforma qualsiasi ragionamento critico sulla gestione mediatica della pandemia in un affare da carbonari, a meno di essere disposti a subire automatiche accuse di “negazionismo” e “complottismo”, con conseguente ostracismo (senza virgolette).
È vero che l’intelligenza artificiale tra qualche tempo ci solleverà dall’incomodo di pensare, ma perché tutta questa fretta, che è sempre cattiva consigliera? Si rischia di finire nel grottesco di costruire un “negazionismo del complotto”, di qualsiasi complotto (un negazionismo buono, per così dire), che ha un curioso sapore di hybris.