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Chi, come e perché condiziona le politiche dell’Europa

La Germania in Europa riesce a far valore sui tavoli ove si prendono le decisioni peso economico, stabilità politica e indubbia capacità di leadership incarnata da Merkel.  “Ocone's corner”, la rubrica settimanale di Corrado Ocone, filosofo e saggista

Uniformare, omologare, e quindi normare. È questa la filosofia dell’Unione Europea che vuole costruirsi come uno Stato non per genesi spontanea e maturazione dal basso, ma per imposizione e decreto dall’alto ad opera di menti che si sono autodefinite “illuminate”. È la solita idea costruttivistica, o razionalista, che i liberali hanno da sempre criticato, e che nella forma (non dico nella sostanza) fa sì che per certi aspetti la nuova Europa, quella nata dopo Maastricht, assomigli ala vecchia Unione Sovietica, quella entità sovranazionale che è implosa più o meno negli stessi anni del Trattato.

Il processo è sbagliato per il semplice motivo che la diversità è inscritta nella storia stessa dei popoli europei, che fra l’altro hanno vissuto per secoli in ostile e guerreggiata conflittualità. E la storia non può essere ignorata o sradicata, come vorrebbero gli illuminismi vecchi e nuovi: se lo si fa, essa prima o poi finisce per presentarti il conto, e casomai con gli interessi.

L’Europa, dicevo, è la terra delle diversità: di culture, sensibilità, modi di fare o comportarsi. Sarebbe stato tutto più umile, più semplice, più lineare, se si fosse partiti dal basso (così si era cominciato a fare), da ciò che come europei tutti già ci accomuna: ad esempio, le radici cristiane e liberali e i valori che ne conseguono.

Ma se questo è un aspetto del problema europeo, così come si presenta oggi, l’altro è solo apparentemente di diverso e opposto carattere. Il fatto è che, per uniformare, ci vuole un metodo di misura e qualcuno che lo imponga perché ha la forza di imporlo. Ed è qui che rientra in gioco dalla finestra quella politica che si voleva scacciare dalla porta: le regole le impone sempre il più forte e sono le “sue” regole, quelle che gli fanno più comodo.

Non c’è dubbio che lo Stato nazionale più forte, dopo l’unificazione e ancora di più dopo la Brexit, sia in Europa la Germania, la quale riesce a far valore sui tavoli ove si prendono le decisioni comunitarie il suo peso economico, la sua stabilità politica, l’indubbia capacità di leadership incarnata da Angela Merkel. Quello che perciò è venuta costruendosi negli ultimi anni non è tanto una Germania europea quanto un’Europa germanizzata. Ed è tenendo presente questo quadro, che si può dare un senso anche alla parola che più ricorre nei dibattiti sulle tematiche europee: condizionalità.

Qualsiasi misura intrapresa per affrontare una qualsiasi emergenza, o semplicemente un problema, è oggi condizionata dal sì della Germania, e da quello dei suoi cittadini che badano ai propri interessi e che, soprattutto, considerano il resto dell’Europa tutt’al più come un bacino dei propri mercati e sempre con la diffidenza che si ha per chi si teme possa pretendere a costo zero quello che è stato prodotto dai tedeschi con il lavoro e il sacrificio.

La Germania, in verità, sa giocare perfettamente il suo ruolo, dividendo e imperando, usando ora la carota e ora il bastone. In sostanza, tenendo sempre sotto controllo la situazione, e non cedendo nulla più dello strettamente indispensabile al “bene comune” continentale. In sostanza, la condizionalità, fatta di controlli sulla spesa e di politica economica eterodiretta, impone un forte sacrificio in termini di sovranità agli altri Stati, e ciò avviene per rendere sempre più forte la sovranità nazionale tedesca o comunque per promuovere una sovranità sovranazionale a forte coloritura germanica.

L’espressione può sembrare forte, ma si può dire che, dopo aver perso due guerre mondiali, oggi la Germania si trova ad aver raggiunto senza l’uso delle armi lo stesso obiettivo: allargare il proprio “spazio vitale” tendenzialmente su tutta l’Europa. Una vittoria economica, che si propone di essere anche culturale o ora persino direttamente politica.

Proprio in questi giorni sembra infatti che stia prendendo spessore una idea bislacca che circolava già da tempo: “condizionare” gli aiuti ai Paesi del cosiddetto “fronte di Visegrad” al rispetto delle “garanzie costituzionali” e dei “diritti umani”. Che è un modo per intervenire a gamba tesa nel dibattito politico di quei Paesi, in primis della Polonia che è sotto elezioni, e imporre la museruola ai “partiti sovranisti”. Le cui “malefatte” sono spesso ingigantite, e che a mio avviso non sono la “soluzione” possibile ai nostri problemi, ma di cui non si possono continuare ad ignorare le esigenze di fondo che spiegano anche alcune loro politiche in quei Paesi.

Si tratta, infatti, di popoli che hanno vissuto sotto il giogo sovietico per più di mezzo secolo e che hanno dovuto aderire coartatamente a un’ideologia internazionalista che li costringeva a sradicare le loro tradizioni e specificità nazionali, la loro lunga e ricca storia di spiritualità che era all’antitesi dell’ateismo di Stato di stampo sovietico.

La libertà riconquistata, per quei Paesi, ha significato soprattutto dissotterrare e riprendere un filo profondo che si era spezzato. Perché ora dovrebbero farlo scomparire di nuovo e prostrasi a un’ideologia imposta dall’esterno e uniformante, a una volontà di potenza “mercadora” e “senza anima”? Che l’Europa ritrovi un’anima, che non può essere quella green, oppure per essa non ci sarà futuro.

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