Sembra surreale ma è realissima la vicenda implosa, più che esplosa, del direttore ora dimissionario dell’Agenzia delle Entrate Enrico Maria Ruffini. Che ha deciso di uscirne, contestando peraltro con un anno e mezzo di ritardo un’accusa della premier Giorgia Meloni al fisco che può diventare “pizzo di Stato”, mentre montava sul piano mediatico una campagna per farne prima un attore e poi un federatore delle aree centrali della pur improbabile coalizione alternativa al governo in carica.
Io stesso mi sono preso una pausa prima di decidermi a graffiare l’argomento per capirne di più, pur avendo modestamente una certa esperienza di racconto e di analisi delle vicende politiche italiane nelle ormai diverse fasi della Repubblica. Se non vogliamo promuoverle e al tempo stesso limitarle alle due edizioni che prevalgono nelle rappresentazioni giornalistiche: prima e dopo il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello misto di proporzionale e maggioritario. O prima e dopo il ribaltamento dei rapporti fra politica e giustizia, o magistratura, intervenuto con le inchieste giudiziarie di una trentina d’anni fa sul finanziamento generalmente illegale dei partiti. Un ribaltamento in qualche modo certificato dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrivendone alla vedova di Bettino Craxi nel decimo anniversario della morte, in terra tunisina, del marito travolto più di tutti gli altri da quelle indagini. E dai processi che ne seguirono fra piazze e tribunali.
Enrico Maria Ruffini, peraltro figlio del compianto e mio carissimo amico Attilio, più volte ministro democristiano, anche della Difesa, oltre che nipote di un cardinale di Santa Romana Chiesa per 22 anni arcivescovo di Palermo, dal 1945 al 1967, da potenziale o aspirante federatore o leader del Centro, con la maiuscola, di una coalizione proiettata a sinistra ha finito per diventarne una vittima. Che non sarebbe la prima, e probabilmente neppure l’ultima, non apparendomi francamente solide più di tanto le carte attribuite, a torto o a ragione, col consenso o all’insaputa degli interessati, al sindaco di Milano Giuseppe Sala, all’ex presidente del Consiglio ed ex commissario europeo Paolo Gentiloni ed altri che non sto qui ad elencare per motivi quanto meno scaramantici per loro.
Gran disegno quello del Centro, sempre con la maiuscola, anche a sinistra come a destra, dove lo spazio è conteso tra Forza Italia di Antonio Tajani e l’apparente appendice di Noi moderati di Maurizio Lupi, in un sistema elettorale antitetico alla sua esistenza perché basato sul fatto di dover essere o di qua o di là, o da una parte o dall’altra. “Vasto programma”, diceva la buonanima del generale e presidente Charles De Gaulle in Francia. E sarà prima o dopo costretto a ripetere a Parigi l’attuale inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron, ostinato nella resistenza ai cambiamenti di umori dell’elettorato pur dopo averne incautamente promosso anticipatamente la verifica.