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Armi Ucraina

Chi aiuta (e chi balbetta) l’Ucraina con le armi

No, gli Alleati non sono compatti né sull'invio di armi all'Ucraina né sul gas. Ecco come si schierano. L'approfondimento di Federico Punzi per Atlantico Quotidiano

 

No, gli Alleati non sono usciti compatti, come qualche giornale italiano ha scritto, dopo l’ultima videocall tra il presidente Usa Joe Biden e i leader di Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Polonia, Romania, Canada e Giappone, a cui hanno partecipato anche il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg.

Stati Uniti, Regno Unito e Canada hanno subito annunciato l’invio di artiglieria pesante agli ucraini, “oltre a molte altre forme di sostegno”, ha assicurato il primo ministro britannico Johnson ai Comuni. La Norvegia si è unita annunciando l’invio di 100 missili anti-aereo Mistral (made in France). Gli ucraini, rendeva noto martedì il portavoce del Pentagono, hanno ricevuto “ulteriori aerei e parti di aerei, per aiutarli a farne volare di più”, dichiarazione poi rettificata: solo parti di aerei, pezzi di ricambio arrivati non dagli Usa, ma da altri partner, presumibilmente Paesi Nato ex Patto di Varsavia.

Nella nota di Palazzo Chigi sulla videocall si ipotizzavano “ulteriori sanzioni” per “rafforzare la pressione sul Cremlino” e anche la Von der Leyen parlava di “inasprimento”, mentre né da Berlino né da Parigi arrivava alcun cenno a nuove sanzioni.

Eppure, si vocifera con insistenza di uno stop all’importazione di petrolio russo. Non prima però del secondo turno delle presidenziali francesi, segno inequivocabile della consapevolezza che scatenerebbe nuovi aumenti dei prezzi, quindi meglio parlarne dopo, per non nuocere alle chance di rielezione del presidente Macron. Ma il ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock ha già fatto sapere che la Germania potrà rinunciare al greggio russo non prima della fine del 2022 e quello delle finanze Christian Lindner ha assicurato che Berlino si muoverà il più rapidamente possibile, ma senza confermare il termine, entro l’anno, indicato dalla sua collega.

Si notano dunque due approcci sempre più divergenti tra i Paesi Nato: da una parte quello anglosassone e nordico, per l’invio di armi pesanti all’Ucraina e l’adozione di sanzioni che colpiscano anche il settore energetico; dall’altra quello franco-tedesco, più prudente su armi e sanzioni e impaziente, invece, di trovare una via d’uscita diplomatica al conflitto – anche se in queste settimane gli sforzi diplomatici di Macron si sono scontrati contro un muro al Cremlino.

Le crepe sono probabilmente destinate ad allargarsi nei prossimi giorni e settimane. Se la “nuova fase” dell’invasione russa – chiusura del fronte settentrionale e rilancio dell’offensiva nell’Ucraina orientale e meridionale – risponde ad una logica militare, essendo falliti i piani iniziali su Kiev, il ripiegamento sul Donbass sembra poter avere un risvolto politico favorevole per Mosca. Un conto, infatti, per l’Occidente e l’Europa in primis, è “morire” per Kiev, tutt’altra faccenda è “morire”, ovvero imporre sacrifici, per il Donbass. La compattezza e la determinazione nel mantenere la massima pressione su Mosca, ed eventualmente accrescerla, potrebbero venir meno, se gli obiettivi russi appaiono ridimensionati.

Non è una coincidenza che proprio con l’avvio di questa nuova fase in cui i russi sembrano concentrarsi sulla “liberazione” delle due province separatiste si siano moltiplicati gli appelli alla diplomazia e alla pace, che passerebbe per la cessione del Donbass a Mosca. Come a dire a Zelensky: non farla troppo lunga, cedi il Donbass e chiudiamola qui. Ma sarebbe davvero chiusa?

Piccolo grande problema: quella che viene presentata come una via d’uscita per Putin potrebbe rivelarsi in realtà una “via d’entrata”, un incoraggiamento a proseguire con la schema della minaccia e dell’aggressione militare per conseguire i suoi obiettivi. Coloro che vorrebbero imporre a Zelensky il sacrificio del Donbass, nonostante alla luce di quanto abbiamo visto in questi due mesi non sia affatto scontato che i russi siano in grado di conquistarlo sul campo, dovrebbero per lo meno assumersi l’onere di spiegare chi e che cosa impedirebbe a Putin, una volta incassato il Donbass, di avanzare tra qualche tempo ulteriori rivendicazioni e avviare nuove aggressioni.

La Germania continua a mostrarsi l’anello debole del cordone sanitario che si vorrebbe stringere attorno alla Russia di Vladimir Putin. Non solo per gli scarsi aiuti militari offerti agli ucraini, o per la sua opposizione all’embargo su gas e petrolio russi nel breve termine, ma per i segnali sbagliati che arrivano al Cremlino, indotto a credere di avere ancora amici a Berlino.

Il cancelliere tedesco Scholz è oggetto in questi giorni di severe critiche, anche in patria, per la sua riluttanza a inviare armamenti a Kiev – blindati, tank leggeri e pezzi di artiglieria – resistendo alle pressioni non solo della CDU, all’opposizione, ma anche di ministri e alleati della sua stessa coalizione di governo.

La Germania non può fornire armamenti pesanti all’Ucraina, ha dichiarato ieri Markus Laubenthal, vicecapo di Stato maggiore, fornendo argomenti a sostegno della posizione del cancelliere. Il Paese non sarebbe in grado di adempiere agli impegni Nato – giustificazione assai curiosa, dal momento che Berlino li ha disattesi senza particolari scrupoli per almeno un decennio – e sarebbe vulnerabile agli attacchi, affermazione quest’ultima bollata come “incomprensibile” dall’ambasciatore ucraino a Berlino Andriy Melnyk.

Un siluro a Scholz è arrivato dalla Bild, con uno scoop pubblicato mercoledì sera (“Il panzer-bluff del Cancelliere”, è il titolo): in pratica, il 27 febbraio, quasi due mesi fa, l’industria delle armi tedesca ha fornito al cancelliere un elenco di 48 pagine di equipaggiamento militare che poteva essere fornito all’Ucraina, ma Scholz ha aspettato fino a martedì scorso per inoltrarlo agli ucraini, e per giunta dimezzato, avendo rimosso dall’elenco tutti gli armamenti pesanti.

“Il problema Scholz. Cresce il malcontento a Berlino”, titola Der Spiegel: “il Cancelliere tedesco sta subendo crescenti pressioni per le sue politiche restrittive” nella crisi ucraina, “è persino iniziata una rivolta all’interno della sua stessa coalizione”. E aggiunge: “Chi è vicino al cancelliere dà l’impressione che tutto stia andando secondo i piani, che tutto sia stato pensato strategicamente. È come essere in un universo parallelo”. Dunque, non un rifiuto dettato da necessità, ma una precisa volontà politica.

Insomma, il cancelliere tentenna, dando a molti l’impressione che la svolta annunciata al Bundestag fosse solo di facciata e che in realtà la SPD sia ancora il partito Russlandversteher, che non sia pronta a rottamare una volta per tutte la sua Ostpolitik e intenda, invece, solo congelarla in attesa di tempi migliori.

Quanto alle spese militari, l’istituto di ricerca economica Ifo di Monaco stima che il fondo straordinario di 100 miliardi di euro per la Bundeswehr non sarà sufficiente a raggiungere l’obiettivo di spesa militare del 2 per cento del Pil, come da impegno Nato, e anche il previsto aumento del 7,2 per cento del budget della difesa per l’anno in corso sarà quasi completamente annullato dall’inflazione.

Un discorso a parte merita l’altro impegno solenne proclamato da Scholz al Bundestag: il superamento della dipendenza dal gas russo.

Nonostante non sia ancora in funzione, ieri la Frankfurter Allgemeine Zeitung è tornata sul gasdotto Nord Stream 2, riconoscendo che fu un “errore fatale” della Germania:

“Forse Putin avrebbe invaso l’Ucraina anche se il Nord Stream 2 non fosse mai stato pianificato. Ma con la cecità politica con cui hanno fatto proprio questo progetto, il governo e gli affari in Germania hanno favorito questa guerra. Hanno rafforzato il disprezzo di Putin per le democrazie europee e la sua aspettativa di vincere questo conflitto”.

Una tesi che i lettori di Atlantico Quotidiano conoscono bene. Una decina di giorni fa Musso spiegava come il completamento del gasdotto, sebbene non in funzione, abbia incoraggiato Putin a invadere, gli abbia per lo meno facilitato il compito.

“Un grave errore fin dall’inizio”, sottolinea ora la FAZ – e non solo “con le conoscenze di oggi”, come si è giustificata il primo ministro del Meclemburgo-Pomerania, Manuela Schwesig (SPD). “Il fatto che la Germania fosse comunque disposta ad approfondire le relazioni energetiche con la Russia è stato visto a Mosca come un segnale che i tedeschi sarebbero tornati al business as usual“, nonostante le sanzioni per l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass iniziata dalla Russia nel 2014. “Questa impressione – prosegue la FAZ – è stata rafforzata dalla fermezza con cui Berlino si è aggrappata al progetto nel corso degli anni, nonostante le ripetute provocazioni russe contro l’Ucraina e le proteste degli Stati Uniti e di gran parte dei partner Ue”. I critici del Nord Stream 2 hanno costantemente sottolineato che la costruzione del gasdotto non avrebbe comportato solo perdite finanziarie per l’Ucraina, ma anche gravi rischi per la sicurezza, una “minaccia militare”, avvertivano ucraini e polacchi, mentre i fautori si sono rifiutati di discuterne, sostenendo che si trattava di un progetto privato e di una questione solo economica.

Nord Stream 2 è sospeso ma il governo di Berlino si oppone all’ipotesi di un embargo sul gas russo e la sensazione è che questa opposizione esplicita copra le spalle anche ad altri governi, come quello italiano, che sul tema sembrano praticare il virtue signalling: non si opporrebbero, dicono, a sanzioni sul gas russo proposte dalla Commissione europea, ben sapendo però che sarebbero altri governi – tedesco e austriaco – a bloccarle.

Mentre qui in Italia si discute di “qualche grado di temperatura in più o meno” negli ambienti, come ha ribadito il premier Draghi al Corriere, specificando che la sua uscita sui condizionatori in cambio di pace non era simbolica, ma una stima fattuale, in Germania la preoccupazione è ben altra: “Un immediato embargo sul gas comporterà perdite di produzione, arresti della produzione, ulteriore deindustrializzazione e continue perdite di posti di lavoro”, avvertono in una nota congiunta la Bda, l’associazione degli industriali tedeschi, e la Dgb, l’associazione dei sindacati tedeschi.

Possibile che in Italia rischiamo “qualche grado di temperatura in più o meno” e in Germania rischiano la deindustrializzazione? No, non è possibile. E infatti, se si va a leggere ciò che il governo italiano ha scritto nel Def – ma Draghi non sembra averlo letto – a seconda degli scenari l’impatto di una interruzione delle forniture di gas russo andrebbe ben oltre qualche grado in più o in meno: da -1,9 di Pil (34 miliardi) a -4,2 (75 miliardi) in due anni; posti di lavoro persi da 300 a 570 mila. Tutti addetti ai condizionatori?

La questione è estremamente seria e su questa non si può liquidare a cuor leggero la prudenza di Scholz. La dipendenza dal gas russo è stata un errore fatale e i responsabili dovrebbero risponderne politicamente, ma purtroppo non è qualcosa da cui ci si possa liberare domani senza far pagare un conto salatissimo a milioni di aziende e lavoratori incolpevoli.

Il contraccolpo di uno stop immediato al gas russo non sarebbe devastante solo dal punto di vista economico, ma anche politico. Le durissime conseguenze economiche farebbero venir meno il sostegno delle opinioni pubbliche alle sanzioni, alimentando nei settori della società più colpiti sentimenti anti-Nato e anti-Usa, già molto estesi e radicati in Francia e Germania. “Non temo i costi economici. Temo lo scenario fisico, se devi interrompere la fornitura, per una linea di produzione completa, ciò provoca più dei costi economici”, ha osservato il ministro delle finanze Lindner. Meglio sanzioni che possiamo sopportare per mesi, per anni. Sanzioni che “colpiscono Putin più di noi”.

Il punto quindi non è rinunciare oggi al gas russo, il che sarebbe probabilmente più dannoso per le nostre economie e in fin dei conti controproducente ai fini del contenimento della Russia, ma mantenere il fiato sul collo dei governi tedeschi (ma anche italiani) perché mantengano fede all’impegno di superare la dipendenza dal gas russo nei tempi più rapidi possibile, sebbene sostenibili. Come abbiamo scritto all’inizio di questa guerra, in gioco non c’è solo Kiev, ma anche Berlino: un’occasione da cogliere per rescindere il pericoloso intreccio di interessi con Mosca, arrestare il progressivo scivolamento della Germania (e con essa dell’Europa continentale) verso Russia e Cina.

Secondo le previsioni del Ministero dell’economia guidato dal vice cancelliere Robert Habeck, per la piena indipendenza della Germania dal gas russo bisognerà aspettare almeno l’estate del 2024. “Siamo intenzionati a fermare tutte le importazioni di energia dalla Russia, è solo una questione di tempo”, ha assicurato il ministro delle finanze Lindner. Qualsiasi calcolo del Cremlino secondo cui la Germania avrebbe continuato a fare affidamento sull’energia russa era “sbagliato”.

Ma Lindner rappresenta i Liberali, solo una delle forze di governo. I dubbi sulle reali intenzioni di Berlino, e in particolare della SPD, permangono. La riluttanza a prolungare la vita delle centrali nucleari tedesche, ad esempio, solleva seri interrogativi sulla fattibilità di un rapido superamento della dipendenza della Germania dal gas russo. “Non sarebbe un buon piano”, ha dichiarato Scholz, e il governo tedesco sarebbe pronto a confermare l’uscita definitiva dal nucleare entro fine anno. Il Nord Stream 2 è solo sospeso. Difficile immaginare una sua entrata in funzione con Putin ancora al potere a Mosca, ma il gasdotto è pronto all’uso e Berlino non lo ha ancora dichiarato ufficialmente morto e sepolto. Da non sottovalutare l’ipotesi che, cessate le ostilità in Ucraina, Mosca torni a inondare l’Europa del proprio gas, abbassando i prezzi e inducendo in tentazione gli europei.

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