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Vi racconto le autocritiche latenti di Bruxelles sull’operazione vaccini

Il corsivo di Teodoro Dalavecuras

 

“Brussels Playbook”, la newsletter di Politico che riflette umori, opinioni e pettegolezzi della Commissione Ue e della burocrazia, diplomatica e non, che la attornia, il giorno dopo l’ultimo vertice dei 27 Stati membri ne ha commentato con pronunciato disincanto l’esito, prendendo lo spunto da una frase del comunicato finale del summit: “Le aziende devono garantire la prevedibilità della produzione del vaccino e il rispetto dei termini di consegna contrattualmente convenuti”.

Pur riferita a AstraZeneca – così la glossa di Playbook – la frase è una sorta di ammissione che “la Ue non riesce a sfruttare nemmeno quello che è ritenuto il suo principale punto di forza, il potere d’acquisto di qualcosa come 450 milioni di persone”. Un modo solo un po’ sfumato di dire che il risultato poco soddisfacente della “operazione vaccini” è solo l’ennesimo sintomo del male oscuro che sta corrodendo il progetto europeo.

In effetti, ammettere che l’Ue non è capace di gestire la potenza di fuoco del quasi mezzo miliardo di consumatori che rappresenta, equivale a riconoscere che le istituzioni europee non sono in grado di gestire il mercato comune, l’unico obiettivo condiviso senza riserve, almeno in linea di principio, da tutti gli Stati membri.

L’aspetto significativo è che questa constatazione pessimistica non proviene da qualche commentatore malmostoso o addirittura – Dio non voglia! – “sovranista”, ma dal cuore della macchina dell’Ue, da Bruxelles.

Il pragmatismo suggerisce che questa stanchezza ha molte ragioni, ma il timore di un rischio-disgregazione resta “fortemente esagerato”, per dirla alla Mark Twain: troppi sono i fili che si sono annodati negli ultimi sessanta e rotti anni tra Cipro e la Groenlandia.

Il limite del pragmatismo è quello di essere meno fantasioso della realtà. Un’America decisa a rilanciare la propria egemonia non può che svolgere, per ragioni oggettive, un ruolo divisivo nei confronti del progetto europeo; e la svolta di Washington è appena iniziata.

Dal punto di vista opposto, però, si potrebbe ottimisticamente immaginare che proprio la catena di insuccessi che ha contrassegnato sinora la gestione von der Leyen possa agire da stimolo per gli uomini che vivono di Ue, che non sono né pochi né di poco peso, a “darsi una mossa” per contrastare la deriva verso una possibile frammentazione che inciderebbe sui loro personali destini.

Il problema purtroppo è appunto negli uomini. Nell’ultimo discorso pronunciato dal Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, in occasione del summit, il 25 febbraio, si è potuto udire, in un contesto già di suo molto cerimoniale e cerimonioso, la seguente frase: “Converrete con me che non potrà essere più un tabù emendare i trattati per arricchirli e rendere efficace la risposta europea”.

Se il massimo rappresentante del volto “democratico” dell’Unione, il Parlamento europeo, dopo avere raccolto tutto il suo coraggio non riesce a proferire che siffatta flebile invocazione, in un momento oggettivamente drammatico, se la sola lingua che si parla a Bruxelles è quella delle feluche, vuol dire che siamo ancora, caparbiamente, fermi al metodo praticato, e nei suoi Mémoires anche teorizzato, da Jean Monnet, di un progetto di integrazione europea ordito alle spalle dei cittadini, dove la sovranità si “delega” – e poco importa se l’istituzione “delegata” è priva dei requisiti indispensabili per esercitarla, la sovranità: ha le stesse caratteristiche di un ipotetico procuratore d’affari minorenne, come tale privo della capacità di agire.

Ma prendersela con Sassoli, presidente a termine, sarebbe ingeneroso. Può suonare paradossale ma forse si deve ammettere che il primo e l’ultimo leader (a pieno titolo, cioè nell’esercizio delle proprie funzioni) del progetto europeo dei tempi difficili inaugurati dalla demolizione del Muro di Berlino, è stato il tanto bistrattato Jean-Claude Juncker.

Del resto, non c’è nulla di cui stupirsi: in Europa sono probabilmente ancora in maggioranza gli “opinion leader” convinti che il vero rischio sia che la “nave senza nocchiero” della Ue si trasformi in una “fortezza”. Qualcuno ne è convinto addirittura in buona fede.

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