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Tutti i grilli geopolitici bislacchi di “Che Guevara” Di Battista

Il commento di Gianfranco Polillo, già Sottosegretario all'Economia

Ormai è lotta, anzi guerra diplomatica, continua. La miccia accesa da Di Battista e Di Maio, contro la Francia, sta producendo i suoi effetti mefitici. Siamo agli insulti, con un Ministro della République che dice di non voler giocare al “concorso su chi è più stupido”, riferendosi, a quanto riportano le agenzie, ad entrambi i due vice presidenti del Consiglio: lo stesso Di Maio e Salvini.

Mentre il Presidente Conte, a Davos, si scopre iper europeista. Propone che il seggio del Consiglio di sicurezza dell’Onu sia assegnato direttamente all’Europa. Tanto per fare un dispetto a Emmanuel Macron ed Angela Merkel. Al diavolo gli accordi di Aquisgrana. Cose impensabili solo qualche mese fa.

C’è la campagna elettorale che incombe e, quindi, è necessario fare una tara al montare della polemica. Tuttavia il relativo polverone rischia di avere un effetto regressivo, non solo sul piano della politica. Siamo, all’improvviso, piombati indietro di 50 anni. Con Di Battista che si crede Che Guevara, pronto a lottare contro l’oppressione coloniale della Francia nei Paesi dell’Africa centrale. Manca poco e, forse, si vedrà spuntare a Fiumicino il cartello con sopra scritto: “Italia, primo territorio libero d’Europa”. Come avveniva a Cuba, alla fine degli anni ’60, nell’aeroporto dell’Avana.

Cose da non prendere sul serio. Che rischiano tuttavia di confondere le acque e rovesciare completamente la percezione del reale. Il problema di oggi non è una presenza imperialista di questo o di quel Paese europeo, ma il vuoto politico che si sta determinando a causa del venir meno di una più antica presenza. Gli Stati Uniti hanno tirato, da tempo, i remi in barca. Il Mediterraneo ed il Medio Oriente, per non parlare dell’Africa, non hanno più quel significato strategico che avevano una volta.

Donald Trump dichiara di voler ritirare le residue truppe dai teatri di guerra, lasciando mano libera alle più piccole potenze regionali. La Turchia in testa, con l’appoggio dei russi di Putin. Chiede, agli europei, più soldi per la Nato. Non vuole più sostenerne il costo, finora prevalente. Gli interessa più il Pacifico, che non l’Atlantico.

Strategia facilmente decifrabile se si guarda alle vecchie basi materiali della politica di potenza. Che trovò il suo fondamento economico originario nel lontano 1928: quando le compagnie petrolifere americane, francesi ed inglesi si impadronirono della Turkish Petroleum Company. Il “red line agreement” – questo il nome dell’accordo – stabilì le rispettive zone d’influenza ai fini dello sfruttamento dei relativi giacimenti. Ma oggi quella commodoty non ha più lo stesso valore strategico. Gli Usa da importatori, grazie alla produzione di shell oil, sono diventati esportatori netti. E premono sull’Europa – soprattutto la Germania – affinché non accetti la concorrenza russa nella fornitura di gas. Naturalmente rimangono dei presidi, come l’Arabia Saudita. Ma si tratta solo dei resti di un’epoca imperiale.

La Gran Bretagna ha abbandonato a se stesso il Vecchio continente, privandolo di quella forza militare, che è componente essenziale di ogni vocazione imperialista. Resta la Francia, ma è poca cosa, senza il supporto inglese. La Germania, a sua volta, è ancora una zona sostanzialmente smilitarizzata. Sta ricostruendo il suo esercito, dopo la lunga quarantena decretata dagli accordi di pace. Ma ci vorrà il tempo necessario per recuperare un intervallo – ed è forse meglio che questo non avvenga – lungo decenni. Lenti, se non addirittura inesistenti, sono gli sforzi per giungere ad un’integrazione degli apparati di sicurezza, che rappresenta il presupposto di una politica estera comune. Come tutto ciò possa evocare il fantasma del neo-colonialismo, resta un mistero da svelare.

La realtà è completamente diversa. Gli asset strategici che, in passato, giustificavano una politica d’intervento non sono più tali. Il progresso tecnologico e le trasformazioni socio-economiche dell’Europa hanno creato i presupposti per un relativo disinteresse. Le materie prime, una volta la molla che spingeva alle avventure coloniali, hanno perso gran parte della loro importanza. Il loro peso, sul manufatto industriale finito, è sempre più ridotto: sostituito da “nuovi materiali” che sono il prodotto della scienza e della tecnica. L’industria ha visto ridursi il suo peso specifico nei grandi equilibri macroeconomici. Prevalgono i servizi, la finanza, l’elettronica: settori in cui la materialità ha un peso quasi irrilevante. Mutamenti strutturali che hanno trasformato quelle antiche presenze in un vuoto, che altre forze cercano di colmare.

La Russia spinge per ritornare ad un antico splendore imperiale. Ad essa Vladimir Putin lega il suo prestigio, soprattutto sul piano interno. Far dimenticare la caduta del muro di Berlino e ridare a Santa madre Russia il ruolo che le spetta nei grandi equilibri mondiali. Per il nuovo zar del Cremlino conta più questo che non una geopolitica mediorientale: dalla quale può ricevere più grattacapi che non vantaggi economici consistenti.

Nel frattempo le potenze regionali – la Turchia, l’Iran, l’Arabia saudita e via dicendo – portano avanti il loro gioco, in una partita a risico che incide limitatamente sui grandi equilibri mondiali. Anche se, per questo, non è meno pericolosa e sanguinosa. Anzi alimenta spesso genocidi e pulizie etniche, come avveniva in Europa al tempo della Guerra dei trent’anni. Ma, paradossalmente, tutto ciò è il risultato non di una presenza dell’imperialismo occidentale, ma del suo progressivo ritiro. Si pensi solo ai “fratelli musulmani”. Sono sulla scena, da tempo immemorabile. Ma, in passato, grazie alle maglie strette di una più forte presenza occidentale, non sono mai riusciti a generare quei mostri che sono le milizie jihadiste, che stanno infettando interi continenti. E che contribuiscono alla grande migrazione.

In questo panorama così diverso dall’immagine che Di Battista vorrebbe accreditare, c’è una grande eccezione: da lui totalmente ignorata. L’attivismo della Cina. È stato l’Economist di qualche anno fa a sottolineare, per primo, le mire dell’ultimo Paese, ancora comunista. Che non si limitano al solo sud est asiatico: Corea del nord, Vietnam e Cambogia. Solo per citare i principali Paesi. In Africa l’attivismo cinese è debordante. Produzioni agricole, minerali, infrastrutture per trasportare quei prodotti sul suo territorio. E poi porti e logistica. Quello del Pireo, solo per citarne uno: il terminale della via della seta. Senza contare gli investimenti realizzati in Europa e negli stessi Stati Uniti.

Le sue basi sono quelle classiche del “modello imperialista”. Materie prime e prodotti agricoli sia per alimentare il proprio mercato interno, che per soddisfare le esigenze di un hub industriale che produce per il mondo intero. E poi l’esportazione di capitali per acquisire tecnologie e asset nei Paesi più avanzati. Questo quindi il dato vero del problema, con cui sarebbe giunto il momento di misurarsi, per tentare di allentare la morsa del futuro più immediato. Che vede due protagonisti assoluti – Stati Uniti e Cina – mentre l’Europa si balocca con risse da cortile, nella speranza di piccoli lucri elettorali.

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