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Quota 100

Che cosa succederà in caso di flop dei referendum sulla giustizia

Il commento di Giuliano Cazzola sui referendum sulla giustizia che si terranno domenica 12 giugno

 

Ho sottoscritto, a suo tempo, i cinque questi dei referendum sulla giustizia anche se – sulla base di una puntuale analisi degli effetti prodotti, se approvati – ci saremmo accorti che promettevano esiti più importanti di quelli che sarebbe divenuti operativi. Ma il meglio è spesso nemico del bene.

Sicuramente domenica voterò Sì su tutte le schede, con particolare slancio sul quesito per l’abolizione della legge Severino, che, da deputato ancorché filo-montiano, mi rifiutai di votare. Mettiamo pure in conto gli interventi in zona Cesarini, gli scioperi della fame, le tardive giornate di mobilitazione, i rap che invitano a votare sì, l’impegno di taluni giornali cartacei e on line, ma tutto lascia credere che non solo non si raggiungeranno i quorum previsti in nessuno dei quesiti, ma vi è il dubbio che in alcuni casi – tra i voti espressi – i No prevarranno sui Sì.

Il risultato dei referendum, allora, si rivelerà un disastro per i promotori e i sostenitori e un regalo (non sperato?) per la ANM proprio nel momento in cui sta attraversando (si vedano i dati della partecipazione allo sciopero) una fase di significative difficoltà. Certo, nel fallimento dell’operazione si possono effettuare molte chiamate di correità: l’invadenza del conflitto ucraino nell’interesse dell’opinione pubblica, il forfait dei media, lo schierarsi per il No di alcuni dei principali partiti, lo scarso impegno della principale forza politica (la Lega) che aveva promosso la raccolta delle firme insieme ai soliti Radicali.

Non era tuttavia difficile prevedere che sarebbe finita così: sia per l’utilizzo dello strumento di democrazia diretta, sia per i contenuti della battaglia referendaria, sia per le caratteristiche della strana coppia di promotori.

Cominciamo dal primo argomento. L’esperienza pluridecennale dei referendum ha messo in evidenza due aspetti: a) gli elettori votano con i piedi; chi dissente dai quesiti può avvalersi della rendita di posizione fornita dagli astenuti; b) tra la raccolta delle firme e lo svolgimento della consultazione trascorre un tempo che, per le dinamiche della politica, può rivelarsi molto lungo; così si rischia sempre di andare a votare in un contesto profondamente mutato anche nell’orientamento dell’opinione pubblica. La campagna è partita quando imperversava il caso Palamara; si va a votare quando le sue interviste sono state oscurate e dimenticate e i primi provvedimenti del governo in materia di giustizia possono costituire un alibi.

La seconda riflessione chiama in causa la sfida vera dei referendum, che non è solo al potere debordante e paragolpista delle procure, ma all’ondata giustizialista, forcaiola dell’antipolitica che – attraverso gli abusi delle procure e del circuito mediatico-giudiziario durante tanti decenni – ha screditato le istituzioni, provocato l’eutanasia dei partiti e avvelenato i pozzi del vivere civile, portando alla ribalta della scena politica i prosseneti di questa subcultura.

Col referendum si trattava e si tratta di misurarsi con questo sentimento ancora diffuso e forse prevalente che, dalla gogna imposta la politica si è esteso alla microcriminalità e al culto della galera (“gettando via la chiave”) come strumento per garantire la sicurezza comune anche a costo del sacrificio dei diritti. Basti ricordare la dottrina Davigo: “l’imputato assolto è un colpevole che l’ha fatta franca”.

C’erano le condizioni per invertire questo squilibrato rapporto di forza tra una cultura delle garanzie e la legge del taglione? Io ero e resto convinto di no.

Mi si può obiettare che anche ai tempi del referendum sul divorzio e l‘aborto ci furono gli stessi timori che l’elettorato fosse in maggioranza dall’altra parte della barricata. E non fu così. Ma allora la società italiana attraversava un periodo di crescita e di emancipazione che prese in contropiede gran parte della classe politica. Oggi non darei il medesimo giudizio di un elettorato che ha votato come quello italiano nel 2018.

L’ultima considerazione riguarda l’adagio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. La Lega e i Radicali erano e sono una “strana coppia”. Matteo Salvini – forcaiolo redento – si è gettato in questa battaglia “un po’ per celia, un po’ per non morir”. Ma era evidente che di lui non ci si poteva fidare. Infatti, scattato il “maiora premunt”, il Conducator ha abbandonato il referendum con lo stesso cinismo di chi scarica dall’auto il cane sulla via del mare.

Ma anche i Radicali hanno un approccio particolare nei confronti delle consultazioni referendarie. Agli eredi di Marco Pannella non interessa una vittoria in senso tecnico; perché dal loro punto di vista vincono sempre in ogni referendum. Una forza politica che non partecipa normalmente alle consultazioni elettorali o, se lo fa, riceve un consenso limitato, in occasione di un referendum è in grado di attribuirsi l’appoggio, sia pure indiretto, di quei milioni di elettori che vanno alle urne e votano secondo le indicazioni politicamente corrette.

Tutto ciò premesso, auguriamoci che il risultato del 12 giugno non si trasformi in una ri-beatificazione a furor di popolo (“Santo subito!”) della magistratura inquirente.

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