Il sequestro della crisi di governo da parte del presidente del Consiglio, se Dio vuole, è finito con quella che Domani, il nuovo quotidiano di Carlo De Benedetti, ha definito “la resa di Conte”. Che non è negata neppure dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, sostenitore dell’avvocato pugliese anche nella resistenza alle dimissioni dopo aver perduto un pezzo della maggioranza, quello renziano, e nel tentativo di sostituirlo rapidamente con un gruppo numericamente adeguato di “volenterosi” provenienti dall’opposizione, prevalentemente di centrodestra.
Travaglio è stato, dal suo punto di vista, addirittura catastrofico nella valutazione dello scenario di una crisi finalmente formalizzata. Egli ha indicato già col titolo di prima pagina il finale della partita: il ritorno “a casa” di Conte e l’ascesa al Quirinale, magari dopo un turno anticipato di elezioni politiche e la vittoria del centrodestra, dell’odiato B inteso naturalmente come Silvio Berlusconi. Cui Matteo Salvini avrebbe già “prenotato” la poltrona oggi di Sergio Mattarella.
A questa catastrofe in prospettiva, sempre dal suo punto di vista, Travaglio ne ha descritto un’altra di accompagnamento, nell’editoriale su “Conte alla rovescia”, scrivendo che “i poteri marci, con giornaloni e onorevoli burattini al seguito, non potevano perdere l’ultima occasione di mettere le zampe sui 209 miliardi del Recovery fund”. E ciò avverrebbe “piazzando a Palazzo Chigi l’ennesimo prestanome”. Così tutti i possibili successori di Conte, non potendosi ritenere scontato – come vedremo – un suo reincarico, sono bollati: marionette dei “poteri marci” che gli amati grillini non sono evidentemente riusciti a rottamare nei quasi tre anni della legislatura di cui ancora si considerano “la colonna”, come si è appena vantato il reggente Vito Crimi reclamando un nuovo governo di Conte. Che tuttavia, a leggere Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, non si fida più neppure del Movimento 5 Stelle. La cui situazione interna in effetti è a dir poco caotica, temendo tutti a morte quelle elezioni anticipate che invece reclamano come minaccia per chi contesta il loro ruolo ancora centrale nel Parlamento eletto nel 2018.
Ora che la crisi ha preso finalmente la strada giusta per essere gestita dal titolare voluto dalla Costituzione, che è il capo dello Stato, si può forse sperare che non sia terminato solo il sequestro, come dicevo, ma anche l’avvelenamento dei rapporti politici verificatosi con quelle che Claudio Tito su Repubblica ha definito “grandi manovre” di Conte tradottesi in “piccoli numeri”. Che peraltro si sono rivelati insufficienti a garantire il primo appuntamento che il governo, scampato alla sfiducia pochi giorni fa al Senato, aveva col Parlamento tra domani e dopodomani: il voto sulla relazione annuale del guardasigilli e capo della delegazione grillina Alfonso Bonafede relativa allo stato della giustizia in Italia.
Ora dei numeri si occuperà realisticamente il presidente della Repubblica, a proposito del quale il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda ha scritto, fra l’altro, che “non è scontato” il conferimento del “nuovo incarico” che si aspetta Conte. Cui potrebbe mancare addirittura la designazione dei pochi “volenterosi” raccolti durante il sequestro della crisi o rimasti sospesi per aria.