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Euro

Ecco le vere condizioni per avere il Recovery Fund

L'analisi di Tommaso Monacelli, professore ordinario di Economia all'Università Bocconi di Milano, Fellow di IGIER Bocconi e del CEPR di Londra, su Lavoce.info.

Con il Recovery Plan della Commissione europea pioveranno sull’Italia gigantesche risorse, tra cui molte a fondo perduto e senza particolari condizionalità: è la convinzione che sembra prevalere nel superficiale dibattito italiano.

Come ben evidenziato dalla Commissione, il Recovery Plan è in realtà ricco di condizionalità. Viene erroneamente definito “Fondo” (da cui l’espressione giornalistica “Recovery Fund”). Ma è ben diverso dai tradizionali fondi strutturali della Ue. Per semplificare, i fondi Ue pagano i costi, ad esempio, quelli per costruire un’autostrada in Puglia. Il Recovery Plan invece opera all’interno di una “facility”. Il che significa che il governo, accanto all’opera, deve anche stabilire obiettivi economici che quell’opera può generare; sapendo che l’erogazione finale delle risorse avviene solo se anche gli obiettivi vengono raggiunti. Ad esempio, il governo italiano non può semplicemente chiedere di finanziare la costruzione di un’autostrada in Puglia. Ma deve anche porsi l’obiettivo, con quell’autostrada, di far crescere l’indotto economico tra Foggia e Lecce (occupazione, nuove imprese, valore aggiunto dell’area). Solo nel caso di raggiungimento di questo obiettivo sarà alla fine possibile ottenere il rimborso dei costi dell’autostrada.

Il Recovery Plan ha una condizionalità aggravata, legata a doppio filo al raggiungimento degli obiettivi economici di ciascun progetto. Una differenza cruciale rispetto all’impostazione e alla gestione dei tradizionali fondi europei, al fine di evitare il più possibile la costruzione di ponti verso il nulla, spesso una specialità italiana.

Ma ci sono due ulteriori punti. Primo, solo il 10 per cento dei fondi del Recovery Plan sarà erogato in tempi brevi (comunque entro fine 2021), per avviare la messa in opera dei primi progetti. Il rimanente 90 per cento sarà invece condizionato al raggiungimento degli obiettivi economici stabiliti in partenza (tra governo e Commissione Ue). Secondo, l’orizzonte temporale per gli obiettivi da raggiungere è di sei anni, quindi relativamente breve. Il che impone una pressione forte sul governo per una esecuzione rapida ed efficiente degli interventi. Una pressione certamente positiva, ma non è chiaro se le nostre amministrazioni saranno in grado di gestirla.

Ciò dato, fa veramente sorridere l’ostilità alla linea di credito del Mes che si è rapidamente diffusa nel paese. Il Mes non presenta affatto l’elemento di condizionalità aggravata del Recovery Plan. Ne ha in realtà solo una, leggera e quanto mai virtuosa: le risorse (fino a 35 miliardi) devono essere utilizzate nel comparto della sanità.

UNA SPINTA ALLE RIFORME

La condizionalità è un elemento di grande importanza del Recovery Plan. Soprattutto per un paese come l’Italia, che è scandalosamente incapace di spendere i soldi dei fondi strutturali Ue. Per capire, nel periodo 2014-2020 l’Italia ha ottenuto 44,8 miliardi di fondi strutturali e ne ha spesi non più del 38 per cento (peggio di noi ha fatto solo la Croazia). Correttamente, per alleviare il problema, con il Recovery Plan la Commissione pone al centro la richiesta di cosiddette riforme di sistema, strumentali a spendere le risorse, e a spenderle bene.

Tra tutte le riforme una appare cruciale: quella della pubblica amministrazione. La nostra Pa impiega molti lavoratori anziani e con competenze obsolete. Pochissimi laureati. Pochissimi esperti di data science, statistica, finanza. Per impiegare nel modo migliore i fondi del Recovery Plan è necessaria capacità di analisi dei dati, programmazione ingegneristica, competenza statistica ed economica.

Nel nostro paese si è diffusa la convinzione che, almeno in parte, il Recovery Fund sia una specie di “pasto gratis”. Per l’Italia il Piano prevede circa 209 miliardi, di cui 127,4 in prestiti e 81,4 in sussidi. È una quota importante, che ci carica di una enorme responsabilità.

La parte di sussidi non è però un regalo a fondo perduto, come si sente spesso dire. All’inizio del processo la Commissione Ue si indebita per 750 miliardi (la torta complessiva del Recovery Plan), raccogliendo risorse dai fondi pensione americani, dalle famiglie norvegesi, dagli investitori giapponesi. La Ue raccoglie risorse sul mercato, dunque, e non dai paesi membri. Una parte delle risorse è girata come trasferimenti a Italia, Spagna e altri paesi. Ma certamente non a “fondo perduto”. Perché la Commissione dovrà prima o poi ripagare agli investitori internazionali quegli iniziali 750 miliardi. E saranno ovviamente i vari paesi membri, inclusa l’Italia, a farlo attraverso il bilancio comunitario.

Il governo ha da poco fatto circolare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con le proposte italiane per il Recovery Fund. Con tante criticità di metodo. Basti un esempio: il fondamentale capitolo su istruzione e ricerca prevede 19,2 miliardi, di cui 10,1 per istruzione e 9,1 per la ricerca. Gli interventi sull’istruzione prevedono, tra l’altro, la riforma di carriere e meccanismi di assunzione dei docenti nella scuola. Riforme certamente auspicabili, ma che sono sostanzialmente a costo zero. Molto meglio sarebbe destinare quei soldi alla ricerca di base, la vera grande assente del Pnrr italiano.

Il Recovery Plan può essere una occasione storica per il paese. È centrale che l’opinione pubblica comprenda che la forte condizionalità è un importante meccanismo che lega le mani alla nostra politica e rafforza la credibilità dell’intero progetto. Riforme centrali come quelle della giustizia e della Pa sono capitoli decisivi per l’efficienza della spesa. Si tratta in realtà di riforme a costo quasi zero per le quali le risorse del Recovery Plan non sarebbero strettamente necessarie. Ma la condizionalità del piano e l’orizzonte temporale ristretto potrebbero essere fattori decisivi nel vincolare la politica a metterle finalmente in atto.

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