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Berlusconi

Che cosa succede tra Prodi, De Benedetti e Berlusconi?

Le inedite convergenze parallele fra Prodi, De Benedetti e Berlusconi viste dal notista politico Francesco Damato

Non so se sia più stucchevole la Berlusoneide, diciamo così, prodotta  dalla raccolta delle firme per la nomina di Silvio Berlusconi, appunto, a senatore a vita come riparazione della sua condanna definitiva per frode fiscale, emessa da “un plotone di esecuzione” della Corte di Cassazione  nell’estate del 2013 secondo la confessione di un giudice che ne fece parte, morto però l’anno scorso, o l’Antiberlusconeide esplosa per le aperture fatte al Cavaliere prima da Romano Prodi e poi da Carlo De Benedetti, se mai si riuscisse a cambiare maggioranza di governo.

La raccolta delle firme per il laticlavio l’ho trovata quanto meno impropria perché i cinque senatori a vita di nomina presidenziale “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” consentiti dall’articolo 59 della Costituzione ci sono già tutti e godono, per quanto mi risulta, di buona salute. Sono, esattamente, Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia, tutti nominati da Giorgio Napolitano quando era capo dello Stato, e Liliana Segre, nominata dall’attuale presidente della Repubblica Sergio  Mattarella. Che scegliendo solo la Segre nei suoi ormai cinque anni e più di mandato presidenziale ha dimostrato nei fatti la fedeltà ad una interpretazione restrittiva del già citato articolo 59 della Costituzione. E ciò diversamente da un predecessore che ritenne diritto del capo dello Stato di nominare ciascuno ben cinque senatori, anche a costo di affollare Palazzo Madama in una stessa legislatura, considerando pure i senatori di diritto che sono gli ex presidenti della Repubblica.

Berlusconi per primo dovrebbe sentirsi in imbarazzo, come del resto ha già mostrato di esserlo, per la devozione —chiamiamola così — degli amici. Che lo costringerebbe a ripetere l’augurio di “lunga vita ai senatori a vita” espressi pubblicamente  una volta dall’allora presidente della Camera Sandro Pertini dopo che il segretario del suo partito, il Psi, Francesco De Martino era andato a proporgli di dimettersi, in cambio del laticlavio, per consentire l’elezione di Aldo Moro al vertice di Montecitorio. L’operazione era stata appena abbozzata tra le forze del centrosinistra per riprendere la collaborazione di governo interrottasi l’anno prima, nel 1972 per l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, avvenuta alla fine del 1971 con una maggioranza di centrodestra. Poco mancò che in quell’occasione Pertini cacciasse dal suo ufficio alla Camera un sorpreso e imbarazzatissimo De Martino.

Se la Berlusconeide ha l’inconveniente della inopportunità o ineleganza, come preferite, per le ragioni appena esposte, irrispettose nei riguardi dei cinque senatori a vita di nomina presidenziale in carica, comportando l’auspicio della morte di uno di loro, l’Antiberlusconeide esplosa dopo le aperture politiche al presidente di Forza Italia da parte di due suoi antichi avversari come Prodi e De Benedetti, ha qualcosa di barbarico che impressiona. E la rende francamente molto più grave e inaccettabile della Berlusconeide. Essa denota il livello di livore al quale è forse irrimediabilmente scesa la lotta politica da un bel po’ di tempo a questa parte: un livello ancora più odioso in un momento come quello che stiamo attraversando, fra emergenza virale, emergenza economica e sociale ed emergenza — lasciatemi dire — istituzionale. Che è stata bene espressa e denunciata di recente dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati parlando dei parlamentari come ormai degli “invisibili della Carta costituzionale”. Che vivono tra voti  palesi di fiducia a salve, cui il governo ricorre abitualmente per strozzare discussioni scomode e scongiurare votazioni a scrutinio segreto su emendamenti o altro, e decreti o disegni di legge varati dal Consiglio dei Ministri “salvo intese”, cioè senza intese. Esse sono affidate a supplementi di ermetiche trattative politiche e tecniche, sempre fidando sulla infinita pazienza del presidente della Repubblica, la cui firma è necessaria ai decreti legge per essere pubblicati ed entrare in vigore, ai disegni di legge per essere presentati, cioè proposti, alle Camere.

Di Prodi il meno che si sia potuto dire e scrivere di sgradevole dopo l’auspicio di una partecipazione di Berlusconi ad una nuova maggioranza, in considerazione del suo europeismo contrapposto al sovranismo delle altre componenti del centrodestra, è che sia stato mosso a simile auspicio dalla voglia di procurarsene l’appoggio ad una candidatura al Quirinale nel 2022. Che potrebbe compensare il professore emiliano della delusione procuratagli nel 2013 dai cento e più “franchi tiratori” del Pd rivoltatisi con successo contro di lui, proposto candidato per acclamazione dall’allora segretario del partito Pier Luigi Bersani.

A smorzare questo sospetto non è riuscita neppure la capogrupppo di Forza Italia alla Camera Mariastella Gelmini dichiarando al Dubbio — secondo me con una tempestività che poteva risparmiarsi — la indisponibilità pregiudiziale del suo partito a sostenere una nuova scalata di Prodi al colle più alto di Roma.

Di Carlo De Benedetti, spintosi a parlare bene o meno male del solito di Berlusconi in una intervista al Foglio, pure lui nella prospettiva di un cambio di maggioranza ma anche di presidente del Consiglio, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio la cosa più cortese che ha scritto è, letteralmente, che “a 85 anni un po’ di rincoglionimento ci sta”.

Eppure dalle parti di quel giornale, l’unico o il più sistematicamente schierato con Conte, nonostante i sondaggi attribuiscano al presidente del Consiglio livelli di consenso molto alti, fu accettato due anni fa il coinvolgimento di Berlusconi nell’avvio di questa tormentatissima legislatura con l’elezione, per esempio, della fedele Casellati a presidente del Senato. Che è la seconda carica dello Stato, mica uno strapuntino. E vanno bene, da quelle parti, anche i rapporti diretti e indiretti di cui si scrive spesso, e non a torto, fra Conte e Berlusconi.

Non vi è politica ed anche giornalismo peggiore di quella o quello che si fa o si pratica per tigna, dicono a Roma.

 

 

 

Articolo pubblicato sul Dubbio

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