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Israele Iran

Che cosa succede (e perché) fra israeliani e palestinesi. Report Cesi

"Questi eventi fotografano chiaramente il fallimento politico delle classi dirigenti israeliane e palestinesi". L'analisi di Giuseppe Dentice per il Cesi (Centro studi internazionali) presieduto da Andrea Margelletti

 

A partire dal 10 maggio, a Gerusalemme e a Gaza si è registrata una nuova escalation di violenze che è diretta conseguenza degli eventi recenti che stanno segnando in profondità il panorama urbano della Città Santa e potenzialmente peggiorare quello umanitario nella Striscia. Gli ordini di sfratto autorizzati dalla Corte Suprema israeliana di 28 famiglie palestinesi dai quartieri arabi di Sheikh Jarrah e Silwan e gli scontri tra Hamas e il governo israeliano causato dal lancio di oltre 800 razzi in poco più di 24 ore da Gaza verso Tel Aviv, Lod, Ashqelon, Ashdod, Acri, Ramla e Dimona sono il risultato di una condizione di latente tensione che ha trovato una sua valvola di sfogo nella violenza politica. Se i fatti di Gerusalemme hanno funto da detonatore, il lancio di razzi da Gaza verso Israele e la successiva escalation militare di Tel Aviv hanno certificato l’esplosione dell’ennesima crisi che potrebbe caratterizzare a lungo questa fase ciclica di violenze ad intensità mutevole.

Le cause che muovono gli eventi di questi giorni, dunque, sono da riscontrare nell’espropriazioni palestinesi a Gerusalemme Est, le quali mostrano in maniera nitida quella che è una battaglia urbana per rimodellare l’identità ebraica della Città Santa. Un processo che parte da lontano, sin dal 1967, da quando la forza militare israeliana, una volta vinta la Guerra dei Sei Giorni e occupati i quartieri orientali di Gerusalemme, ha messo in atto una politica duplice, volta sia ad espropriare i beni delle comunità arabe lì presenti, sia ad espellerli dalla città al fine di conservare una maggioranza ebraica che fosse in grado di contrastare il boom demografico arabo-palestinese. Pertanto, quel che accade oggi a Sheikh Jarrah, Silwan e negli altri quartieri arabi è un inesorabile processo di “ebraizzazione” di Gerusalemme, con l’intento insito di impedire non solo una qualsiasi divisione della città con i palestinesi, ma anche la formazione di uno Stato indipendente palestinese che abbia in Gerusalemme Est la sua capitale morale, identitaria e politica. In effetti, è questa una campagna ideologica e politica che rischia però di scoperchiare un vaso di Pandora al quale potrebbe emergere una Terza Intifada dalle proporzioni e dalle intensità difficilmente classificabili.

Analogie ed elementi comuni con gli eventi del 1987-1993 e dei primi anni Duemila sono tanti, a cominciare da quel senso di frustrazione che si ripresenta sotto forme violente e non classificabili ogni volta che il processo di pace mediorientale (MEPP) conosce uno stallo, o più semplicemente viene ignorato da una delle due parti perché non considerato più opportuno, superato e/o inattuabile. Il riferimento chiaro è rivolto a Israele che, oggi più che mai, ha una forza e una legittimità internazionale ampia per poter attuare iniziative unilaterali anche nei confronti dei palestinesi, godendo in questo senso del maggiore dei paradossi storici, ossia l’appoggio delle principali leadership arabo-musulmane. Sostegno che tuttavia manca a livello popolare, visto che le società dei Paesi arabi e musulmani mediorientali continuano ad appoggiare indefessamente quella che è una battaglia di identità prim’ancora che di valori.

In altre parole, gli eventi gerosolimitani e la pioggia di razzi tra Gaza e le città israeliane mostrano due facce della stessa medaglia, con potenzialità nettamente devastanti sia per il tessuto sociale palestinese e israeliano sia in termini di valori umanitari. Le motivazioni sono riconducibili essenzialmente a due fattori: in primis, l’incapacità e l’inadeguatezza delle leadership israeliane e palestinese nel gestire e governare le rispettive entità, senza dar vita a processi populisti pericolosi – in termini soprattutto di sentimenti – e cavalcando, per pura speculazione, il disagio in favore di un qualche tornaconto personale. Lo si vede in questo senso sia nell’incauto rinvio delle elezioni palestinesi da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che verosimilmente avrebbe visto una vittoria di Hamas, sia nel tentativo del Primo Ministro israeliano uscente, Benjamin Netanyahu, di sfruttare la crisi in corso per indebolire qualsiasi forma di trattativa politica tra i gruppi di opposizione parlamentare, che avrebbero potuto condurre alla fine della sua esperienza di governo. Altresì, i veloci e mutevoli eventi di queste ore spiegano la ratio dei principali attori coinvolti: Hamas, ANP e Benjamin Netanyahu. Il movimento islamico ha usato i fatti di Gerusalemme Est e i lanci di razzi da e verso Gaza per rafforzare il suo potere in chiave palestinese e per dimostrare ancora una volta l’inadeguatezza dell’ANP nel farsi portavoce delle istanze dei palestinesi. In questo senso, quanto sta accadendo è un messaggio indiretto all’ANP e al suo leader, Mahmoud Abbas. Quest’ultimo in particolare, continuando a rifuggire dalla possibilità di riorganizzare per intero e fin dalle fondamenta l’intero organigramma palestinese, rischia di vedersi definitivamente sopravanzato e superato dalla leadership dinamica di Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh (rispettivamente capo politico e guida spirituale di Hamas) in tutte le battaglie politiche contro Israele, lasciando così l’ANP in una condizione di marginalità e agonia. Specularmente, Netanyahu ha sfruttato l’occasione rappresentata dai razzi lanciati sulle città israeliane per mostrare i muscoli, perpetuare la sua quota di legittimità in chiave politica israeliana e, infine, accreditarsi per l’ennesima volta come l’unico uomo in grado di difendere il Paese da tutte le minacce interne (Hamas) ed esterne (Iran).

In secondo luogo, e direttamente connesso al precedente punto, vi sono i forti sentimenti di insoddisfazione che alimentano nuova radicalità ed estremismo di pensiero da ambo le parti, essendo queste situazioni una diretta espressione di scelte politiche miopi o del tutto sbagliate in termini di calcolo politico. Questa sequela interminabile di eventi tragici, che ritorna a cicli più o meno regolari, non solo ha alimentato una propaganda incendiaria, ma ha acuito in maniera eloquente le divisioni interne alle rispettive società, incapaci oggi di sposare posizioni mediane o più tolleranti e tendenti a spostare l’asse ideologico su visioni estreme di contrapposta specularità. Di fatto, le violenze di Gerusalemme Est e di Gaza mostrano una medesima radice, che trova origine in un meccanismo ormai logoro di strumentalizzazione delle crisi al quale non si può o non si vuole mettere fine.

In altre parole, questi eventi fotografano chiaramente il fallimento politico delle classi dirigenti israeliane e palestinesi, lì dove la crisi di Gerusalemme Est è stata usata strumentalmente da ambo le parti per forgiare la nuova escalation su Gaza. Una sorta di diversivo nel quale – per paradosso – le violenze nella Città Santa rischiano di passare in secondo piano se gli eventi nella Striscia dovessero prendere il sopravvento, portando a spostare l’intera attenzione “In questa prospettiva, l’opzione più pericolosa risulterebbe una Terza Intifada che rischierebbe di aprire una stagione di incertezze e asimmetrie con ripercussioni totali nell’intero Medio Oriente, spingendosi oltre un mero conflitto a Gaza” 4 mediatica globale verso lo stretto e sovraffollato territorio governato da Hamas.

(estratto di un report del Cesi; qui la versione integrale)

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