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Argentina

Che cosa si dice in Argentina dell’economia stile Macri

L’approfondimento di Livio Zanotti

All’ora della verità manca ormai solo una manciata di settimane (le elezioni presidenziali sono fissate per fine ottobre, il 27), ma già domenica prossima gli argentini andranno alle urne per le “interne” dei diversi partiti e coalizioni, come previsto dalla legge. Di fatto, però, tutte le candidature sono state anticipate da tempo e la consultazione sarà essenzialmente un macro-sondaggio, in cui tutti gli indicatori danno favorito il ticket del peronismo oppositore con Alberto Fernandez e l’ex presidentessa Cristina Fernandez (45/46%), su quello governativo dell’attuale capo di stato Mauricio Macri, affiancato da Miguel Pichetto, un conservatore ultra-cattolico profugo del giustizialismo. Gli altri candidati seguono fortemente distanziati, praticamente in gioco esclusivamente per eventuali alleanze nel caso in cui si vada al secondo turno.

L’attuale maggioranza appare prigioniera di un fallimento economico clamoroso che nondimeno non rinuncia a giustificare come eredità del precedente governo kirchnerista (permanentemente demonizzato) e inevitabile propedeutica all’affermazione di un modello modernizzatore in chiave liberista, interamente affidato all’innata saggezza del mercato. Una sorta di rito espiatorio (sulla cui pira vengono sacrificati industria e occupazione) per assicurare una futura resurrezione (prodotta dall’export agricolo, dalla finanza e dall’edilizia infrastrutturale). Allo scadere dei quattro anni dell’intero ciclo di governo, con i fondamentali economici tutti in profondo negativo, la formula suona usurata, non più capace di trovare ascolto nella gran parte della pubblica opinione.

Macri non ha del resto la personalità del leader carismatico, non fa né promette magie. Si mostra convinto, oggi come ieri, che disintermediazione della politica (il contrario di una democrazia partecipata) e de-burocratizzazione del processo economico (falcidiare le regole) siano condizioni necessarie e sufficienti per rilanciare la crescita. È un’equazione in cui la mobilità degli equilibri sociali e il patto culturale alla base della convivenza nazionale risultano variabili indipendenti, così come l’elasticità del mercato interno. In un paese di immigrati che per un secolo hanno affidato le loro speranze di progresso all’istruzione (“Mio figlio va all’università…”), la visione dell’ordine e della modernità del Presidente non va oltre il perimetro degli attuali ceti medio-alti.

Ma neppure il mondo della grande impresa è per intero dalla sua parte. Preoccupato dell’enorme indebitamento e della fragilità del sistema paese, troppo squilibrato a causa dell’altissimo grado di dipendenza dall’estero. Tanto che perfino il blindaggio fornito dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) con il prestito più gigantesco mai fornito nella sua storia (56mila milioni di dollari), sembra insufficiente a garantire la stabilità dei cambi, un punto dichiaratamente cardine nella campagna elettorale del governo.

Proprio in questi giorni, è bastato il nuovo episodio di guerriglia dei dazi mercantili tra Stati Uniti e Cina a far lievitare il livello della moneta statunitense, la cui ultima impennata lo ha portato a oltre 47 pesos per un dollaro (una parità ritenuta comunque artificiosa: il dollaro “a futuro” viene commerciato con aumento del 25% al prossimo dicembre, vale a dire in coincidenza con l’inizio della nuova Presidenza). Il rischio-paese ha raggiunto i 902 punti e i tassi sui buoni del Tesoro sono in continua ascesa (con relativo aggravio degli interessi sul debito).

Pochi altri numeri completano il bilancio dell’esperienza macrista. Negli ultimi 4 anni hanno chiuso i battenti 20mila imprese, in massima parte medie e piccole. Divorate dalla permanente inflazione a due cifre e dai permessi d’importazione che hanno sbriciolato interi settori (per esempio, il tessile).

È aumentato il numero delle partite Iva (in Argentina classificate come monotributisti), poiché una parte degli oltre centomila lavoratori che hanno perduto l’impiego si giocano gli ultimi risparmi in qualche micro-imprendimento, per lo più nel commercio e nell’artigianato. La produzione industriale è in caduta libera da 14 mesi. L’indebitamento del solo stato centrale somma 335 mila milioni di dollari, l’intera ricchezza prodotta dall’Argentina in un anno. Nel breve tempo che manca ormai alle elezioni questi numeri non potranno essere modificati.

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