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Germania Francia

Che cosa si dice (e non si dice) in Germania sullo stato dell’economia tedesca

Il governo rassicura i cittadini, avverte che la situazione è monitorata e che al momento non sono necessari ulteriori stimoli fiscali: a Scholz il compito di mettere a punto l'eventuale piano straordinario mentre Merkel si prenderà tutto il tempo necessario per valutare i dati economici dei prossimi mesi. L'approfondimento di Pierluigi Mennitti

 

Alla fine son tornate di moda le Cassandre, quegli economisti e quei politici con competenze economiche che negli anni delle vacche grasse ammonivano il governo (e in primo luogo la cancelliera) a non adagiarsi sui trionfi dell’export e ad attrezzare il paese di competenze e infrastrutture in grado di affrontare anche tempi più cupi. Di assicurare, si diceva, il benessere raggiunto anche alle generazioni future.

I tempi cupi sono arrivati e tra crisi dell’auto (il motore dell’industria tedesca), dovuta al combinato di dieselgate e cambiamenti epocali nell’automotive, e guerre commerciali che impattano in maniera pesante sull’export tedesco, i segnali di rallentamento dell’economia di Berlino sono diventati preoccupanti preavvisi di crisi. E sullo sfondo si agita il pericolo di una Brexit senza accordo, che secondo le simulazioni degli economisti, assesterebbe un ulteriore colpo all’economia tedesca.

Le prudenze degli istituti economici, che nei mesi scorsi avevano lanciato i primi allarmi senza tuttavia drammatizzare, e anzi assicurando che nella seconda metà dell’anno le cose avrebbero ricominciato ad andar meglio, sono state smentite. È vero che i dati forniti alla vigilia di Ferragosto dall’Ufficio di statistica sul Pil negativo nel secondo semestre erano attesi: uno -0,1% rispetto al primo trimestre dell’anno e una crescita anno su anno allo 0,4%, il livello più basso negli ultimi sei anni. Ed è anche vero che -0,1% era un numero già uscito sulla ruota del Pil nel terzo trimestre del 2018. Ma rispetto ad allora il quadro generale è peggiorato, più velocemente del previsto, e i focolai di crisi in giro per il mondo, capaci di intorpidire ancor di più i commerci mondiali, invece che attenuarsi si sono aggravati. Tutti gli analisti danno ora per scontato che anche il dato del prossimo trimestre sarà negativo, aprendo così lo scenario a una recessione tecnica (due trimestri negativi consecutivi).

L’ultimo rapporto della Bundesbank prevede una “situazione economica senza slancio” che enfatizzerà la debolezza strutturale di un paese troppo dipendente dall’export e la cui domanda interna, per quanto irrobustita, non sarà sufficiente a compensare la caduta degli scambi con l’estero. Troppe variabili aperte impediscono di predire se la probabile recessione tecnica si trasformerà in una recessione grave, riaprendo lo scenario del biennio 2008-2009, quello della grande recessione globale che vide il Pil tedesco sprofondare del 5%, ma i timori ci sono.

Secondo Friedrich Merz, l’ex candidato alla guida della Cdu sconfitto per un soffio dalla pupilla di Merkel e oggi membro del consiglio economico del suo partito, la Germania non è preparata ad affrontare una recessione grave. “Mancano spazi di manovra per un rapido taglio delle tasse e dei costi per le imprese”, ha detto in un’intervista al quotidiano di Passau, “mentre i cittadini non sono nelle condizioni di sostenere la congiuntura attraverso i consumi, perché le tasse e contributi che gravano su di loro sono ugualmente elevati”.

E così nel dibattito pubblico sono d’improvviso tornati i toni decadenti di venti anni fa, quando a cavallo del cambio di secolo la Germania veniva considerata il malato d’Europa, un paese destinato al declino con la sua industria pesante, le sue strategie economiche superate e il fardello sottovalutato di una riunificazione impossibile. Come sia poi andata a finire nei lustri successivi la dice lunga sulla prudenza che dovrebbe sempre accompagnare il gusto per le sentenze apocalittiche.

E tuttavia alcune similitudini rendono il confronto con la fine del Novecento uno spettro più credibile. Una è politica: allora come oggi alla guida del paese c’era un cancelliere giunto ormai a fine corsa, privo dell’energia e dell’autorevolezza necessarie a imprimere scossa e svolta al proprio governo. Quando la stagnazione ha cominciato a ingrippare il motore tedesco alla fine degli anni Novanta, al vertice c’era un Helmut Kohl sfiancato dopo 16 anni ininterrotti di cancellierato. Oggi in sella c’è un’Angela Merkel ugualmente al termine della sua parabola e alla guida di un governo cui fin dall’inizio è mancato un deciso senso di marcia e la compattezza necessaria per mettere in pratica le riforme richieste.

Un’altra è industriale: vent’anni fa si sosteneva che l’impresa tedesca avesse perduto l’aggancio con l’era della globalizzazione e che i suoi manager fossero culturalmente legati a un mondo economico ormai scomparso. Oggi l’allarme riguarda la digitalizzazione dei processi produttivi e dei servizi, assieme all’arretratezza delle infrastrutture: si sostiene che l’industria tedesca (la grande ma soprattutto la piccola e media, la leggendaria Mittelstand) si sia attardata sulla strada dell’industria 4.0, mentre lo Stato, anche per inseguire l’obiettivo di riportare il debito pubblico al di sotto del criterio di Maastricht, abbia lesinato gli investimenti nelle infrastrutture digitali, accumulando un ritardo che rischia di diventare esiziale nella competizione con le dinamiche economie asiatiche (ma anche statunitense).

Ma a fronte di queste similitudini, ci sono anche situazioni diverse se non opposte, come il dato dell’occupazione: vent’anni fa il numero dei senza lavoro viaggiava verso la spaventosa soglia dei 5 milioni, oggi quella quota è dimezzata. Proprio ieri, l’ufficio statistico federale ha rivelato che nel secondo trimestre 2019 (lo stesso del Pil in negativo) il numero degli occupati ha raggiunto un nuovo record: 45,2 milioni, 324.000 persone in più rispetto al primo trimestre.

Alla fine degli anni Novanta l’industria tedesca, aiutata da sindacati tradizionalmente collaborativi, trovò la forza di reagire e avviò un profondo processo di ristrutturazione imprenditoriale e culturale e all’inizio dei Duemila un cancelliere socialdemocratico, Gerhard Schröder, scoprì una sua vocazione riformista, avviando un profondo (anche se doloroso ed elettoralmente fatale) piano di riforme del mercato del lavoro e dell’assistenza sociale – l’Agenda 2010 – che innescò la ripresa dei tre lustri successivi (con l’interruzione del biennio 2008-2009). Oggi riformisti se ne vedono pochi anche dalle parti di Berlino e anzi negli ultimi anni, quel che avanzava dai soldi destinati al consolidamento dei conti pubblici, è stato riversato in piccole prebende per le rispettive clientele elettorali dei partiti della coalizione.

La risposta del governo è al momento affidata all’ipotesi avanzata dal ministro delle Finanze spd, Olaf Scholz, di impegnare 50 miliardi straordinari che non incideranno nel perseguimento del pareggio di bilancio anche per quest’anno, ma solo qualora la crisi dovesse aggravarsi. Tornerebbero in vigore misure già sperimentate con successo nel biennio 2008-2009, come il sostegno pubblico alla cassa integrazione speciale (Kurzarbeitergeld), per evitare i licenziamenti delle aziende in attesa che la congiuntura riparta, o incentivi per le innovazioni delle piccole e medie imprese. O ancora un piccolo taglio delle tasse per alleggerire le finanze delle famiglie, partendo dall’abolizione della Soli, la tassa per la solidarietà inventata da Kohl per finanziare la rinascita dei Länder dell’Est: doveva essere a tempo, è poi rimasta in vigore sino a oggi tra le crescenti proteste dei contribuenti dell’Ovest.

Nel suo complesso il governo rassicura i cittadini, avverte che la situazione è monitorata e che al momento non sono necessari ulteriori stimoli fiscali: a Scholz il compito di mettere a punto l’eventuale piano straordinario mentre Merkel si prenderà tutto il tempo necessario per valutare i dati economici dei prossimi mesi. Nessuna decisione frettolosa, è il mantra di Berlino, che verrà ripetuto a Fmi e Bce e anche ai partner del G7 questo fine settimana a Biarritz.

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