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Javier Milei

Che cosa prevede la nuova Costituzione del Cile

La nuova Costituzione cilena, che verrà sottoposta a referendum nazionale il prossimo 4 settembre, innova profondamente i diritti fondamentali nel paese sudamericano. L’approfondimento di Livio Zanotti, autore de Ildiavolononmuoremai

 

È nella geografia della ragione occidentale, sebbene nella sua estrema punta australe, forse la meno attesa, che l’età dei diritti evocata trent’anni fa da Norberto Bobbio ritrova oggi immediata attualità. A quattro anni e una pandemia planetaria dalle moltitudinarie proteste popolari di piazza Italia a Santiago (28 giorni d’ininterrotte manifestazioni), invano combattute con estrema violenza dai carabiñeros dell’allora presidente Sebastian Piñera, il Cile si propone una Magna Charta pienamente democratica in sostituzione di quella imposta nel 1980 dalla dittatura del generale Pinochet.

È l’esito dello straordinario processo avviato dal plebiscito nazionale dell’ottobre 2020, in cui l’80 per cento dei cileni rigettò la Costituzione voluta dai militari e che l’anno seguente ha portato all’elezione dei 155 delegati (in maggioranza indipendenti dai partiti, più d’uno dei quali nei 10 mesi di dibattito ha fatto riferimento al costituzionalista italiano Stefano Rodotà) incaricati di redigere ex novo la legge fondamentale dello stato. Come previsto, i 15 milioni di elettori del paese verranno convocati alle urne il prossimo 4 settembre per ratificarla o respingerla.

Nel “continente delle massime disuguaglianze” e dei conseguenti contrasti che lo lacerano nel più profondo della loro esistenza, il Cile ha saputo imporre un ordine al suo pur marcatamente radicalizzato sistema politico. Quello in cui a partire da un’irrinunciabile difesa della pace numerosi soggetti hanno condiviso il principio fondamentale del reciproco riconoscimento di diritti. La prolungata e tumultuosa transizione della nostra epoca a una nuova modernità, che in America Latina va sovrapponendo le più avanzate tecnologie ad arretratezze stratificate nei secoli, ha scomposto più che altrove la dialettica sociale.

Ora, però, il Cile certifica e apre spazi giuridici coerenti per questa dilatata pluralità dei protagonisti: dai popoli originari (decine di etnie mapuches, quechua, aymaras, collas, rapa-nui, kawahskar, diaguitas…, ciascuna portatrice di altrettante culture e interessi materiali pregressi, tutt’alto che facili da compatibilizzare con situazioni ormai consolidate e anzi da decenni fonte di permanenti conflitti) alle donne, alle diverse identità di genere sessuale, ai giovani. Non esclusi neppure gli animali, tutti, ai quali deve essere risparmiata ogni forma di crudeltà (come chiedono gli animalisti del mondo intero).

Fino a sommare nella sua Charta 499 articoli (la più estesa del mondo), organizzati in 8 capitoli, che disegnano uno stato plurinazionale e interculturale, conformato da entità territoriali dotate di propria autonomia politica, fiscale e amministrativa. Confermano il sistema presidenzialista, ma con una sola Camera dei deputati, sostituendo il Senato con un’Assemblea delle Amministrazioni Locali. Una redistribuzione dei poteri che recide la tradizione dello stato iper-centralista, autoritario e affarista costruito da Diego Portales nella prima metà dell’Ottocento, quasi due secoli addietro.

Il Cile legifera a partire dalla “costituzionalizzazione” della persona e dalla regola dell’inclusione, che sostituisce quella antica dell’esclusione; nello stesso tempo in cui al capo opposto dell’Occidente, alla frontiera del vecchio continente con la risorgente aspirazione turanista, l’invasione russa dell’Ucraina incendia la più primitiva delle dispute, con una guerra di aggressione e di annessione che nega e oltraggia nel sangue il diritto elementare alla sovranità nazionale. Non c’è ombra di suggestione né d’enfasi nel cogliere un forte richiamo simbolico in questa che evidentemente si presenta come qualcosa di più d’una semplice coincidenza temporale.

Un testo tanto rinnovatore, comprensivo del diritto alla procreazione e della possibilità d’interromperla, deciso ad assicurare una “morte degna”, liste elettorali in cui la presenza di un minimo del 50 per cento di candidate donne è un obbligo al pari del voto per i maggiori di 18 anni, libertà di espressione, di associazione e di movimento, il controllo pubblico sulle risorse naturali e la difesa dell’ambiente non poteva non essere anche un campo di battaglia politica per la società cilena, in parte della quale il tradizionalismo è ben presente, concreto e radicato.

Ampio è dunque il campo dei contrasti sociali e culturali, né privo di contraddizioni (spontanee o attizzate dai grandi interessi in gioco). Un esempio per tutti: nel sud dell’Araucania, oltre il mitico Bio-Bio, gli indios difendono da più di 5 secoli i loro diritti sulle terre natie, facendo ricorso anche alla violenza (che del resto hanno subito fin dalla colonizzazione spagnola). I gruppi più radicalizzati continuano ancora in questi giorni a ostacolare il transito dei grandi autotreni sulle strade e a incendiare le macchine delle compagnie che commerciano il legname dei boschi. Patenti violazioni di una legalità ad essi estranea.

Il governo insediato alla Moneda dall’ex leader studentesco Gabriel Boric, 36 anni, il più giovane presidente eletto nella storia cilena, difensore dei diritti degli indios araucani, ha dovuto contraddirsi e mandare l’esercito a presidiare la zona degli incidenti (pur con la raccomandazione di prevenire e non reprimere). Accusati di terrorismo, i nativi replicano che la loro è legittima resistenza. I sondaggi d’opinione rilevano che gli episodi di violenza incrementano l’opposizione al governo e alla nuova Costituzione. La storia ha una densità che non permette di correggerla facilmente.

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