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Giorgetti

Vi racconto il teatrino tra Bonafede e Di Matteo

Tranquilli, né Bonafede né Di Matteo lasceranno le loro cariche: resteranno dove sono - al ministero della Giustizia e al Csm - e amici (forse) come prima. Damato racconta l'ultimo teatrino politico e televisivo

Tranquilli, signore e signori del fronte giustizialista come di quello garantista, entrambi attraversati dal brivido dell’imprevista lite a distanza fra il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede e quello mancato, sempre sotto le cinque stelle, Nino Di Matteo. E’ lo scontro, naturalmente, consumatosi domenica sera, a giornali ormai chiusi, in quella che Massimo Giletti non vuole chiamare “arena” televisiva, ma che spesso cerca e riesce a realizzare per tirare su gli ascolti e fare contento l’editore Urbano Cairo. Che il conduttore nomina ogni volta che è costretto a interrompere grida e insulti degli ospiti per far passare i lucrosi messaggi pubblicitari.

Né Bonafede né Di Matteo, in ordine rigorosamente alfabetico, rimetteranno i loro posti, rispettivamente, di ministro della Giustizia e di consigliere superiore della magistratura: l’uno accusato dall’altro di avergli offerto quasi due anni fa la direzione di tutte le carceri italiane e di averci ripensato, ripiegando sulla proposta di fare il direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula, dopo le reazioni troppo forti dei chissà come informati e comunque intercettati boss mafiosi in regime di detenzione durissima.

Bonafede, sorpreso ancora dal rifiuto di Di Matteo di essere con lui quel collaboratore diretto e influente che Giovanni Falcone fu col guardasigilli socialista Claudio Martelli, rimarrà al suo posto, per quanto spiazzato dalla delusione non ancora passata al magistrato più minacciato e protetto d’Italia. La sua difesa è per il presidente del Consiglio un’emergenza in qualche modo paragonabile, per intensità e pericolosità, a quella del coronavirus.

Figuratevi se Giuseppe Conte potrà farsi influenzare dalle opposizioni o dalla solita dissidenza renziana nella maggioranza per mettere in discussione il capo addirittura della delegazione del maggiore partito della coalizione al governo. In soccorso del quale, peraltro, sono intervenuti più o meno rapidamente il capo reggente del movimento grillino Vito Crimi, il suo predecessore e ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il Pd per bocca del vice segretario, e predecessore dello stesso Bonafede al Ministero della Giustizia, Andrea Orlando. Che pure non aveva molto apprezzato, prima dell’emergenza virale, la tentennante e contraddittoria gestione della riforma del processo penale da parte del guardasigilli, una volta scattata il 1° gennaio la ormai miniprescrizione valida sino alla prima sentenza di giudizio.

Di Matteo, dal canto suo, figuratevi se si lascerà tentare dall’idea delle scuse, o addirittura delle dimissioni dal Consiglio Superiore della Magistratura, con tutte le maiuscole dovute, dopo le critiche ricevute dai tre consiglieri “laici” delle 5 Stelle e l’imbarazzo procurato anche ad un collega, per quanto ormai in pensione, del nome, dell’esperienza e del prestigio di Armando Spataro. Che di fronte alle uscite nuove e vecchie di Di Matteo “è rimasto senza parole” in una intervista alla Stampa. Che tuttavia il giorno dopo ha messo a suo agio in un’altra intervista un Di Matteo “per niente pentito”. Contemporaneamente Repubblica ne ha a suo modo condiviso il malumore verso Bonafede titolando in prima pagina sulla “lista segreta” dei 376 fra mafiosi e narcotrafficanti trasferiti negli ultimi 50 giorni dal carcere a casa per ragioni di salute e rischio virale.

Imbarazzato dalle polemiche, l’amico comune dei due protagonisti e direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio se l’è cavata applicando ad entrambi il nome di uno di loro astutamente separato: Buona fede. E liquidando invece il giorno dopo come “malafede” la difesa di Di Matteo da parte dei forzisti dei “mafiosi” – ha scritto – Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

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